DAVID
TEURTRIE Ricercatore associato presso l’Istituto nazionale di lingue e
civiltà orientali (Inalco), autore di Russie. Le retour de la puissance,
Armand Colin, Malakoff, 2021.
Il rumore degli stivali alle
porte dell’Europa ha gettato nel panico le cancellerie occidentali. Per
tentare di ottenere garanzie in merito alla protezione della propria
integrità territoriale, la Russia ha presentato agli statunitensi due
progetti di trattato volti a riformare la gestione della sicurezza in
Europa, al contempo ammassando truppe al confine ucraino. Mosca chiede
un congelamento formale dell’espansione dell’Organizzazione del trattato
dell’Atlantico del nord (Nato) verso est, il ritiro delle truppe
occidentali dai paesi dell’Europa orientale e il rimpatrio delle armi
nucleari statunitensi schierate in Europa. Non potendo essere
soddisfatte così come sono, queste richieste in forma di ultimatum
rendono la minaccia di un intervento militare russo in Ucraina sempre
più incombente. Sulla questione si confrontano due interpretazioni. Per
alcuni, Mosca sta alzando la posta in gioco per ottenere concessioni da
Washington e dagli europei. Altri, al contrario, credono che il Cremlino
voglia usare una fin de non-recevoir come pretesto per giustificare un
intervento in Ucraina. In ogni caso, si pone la questione del momento
scelto da Mosca per impegnarsi in questo braccio di ferro. Perché
lanciarsi in questo gioco rischioso? E perché ora?
Dal 2014, gli
interventi delle autorità russe hanno aumentato considerevolmente le
possibilità che l’economia del paese possa resistere a un forte shock,
in particolare per quanto riguarda il settore bancario e finanziario. La
quota del dollaro nelle riserve della banca centrale del paese è
diminuita. Una carta di pagamento nazionale, Mir, è attualmente nel
portafoglio dell’87% della popolazione. E se gli Stati uniti dovessero
dare seguito alla loro minaccia di scollegare la Russia dal sistema
occidentale Swift, come hanno fatto con l’Iran nel 2012 e nel 2018, i
trasferimenti finanziari tra le banche e le aziende russe possono ormai
essere effettuati tramite un sistema di messaggeria locale. La Russia si
sente quindi meglio attrezzata per far fronte a delle sanzioni severe
in caso di conflitto.
D’altra parte, la precedente mobilitazione
dell’esercito russo alle frontiere con l’Ucraina nella primavera del
2021 aveva portato al rilancio del dialogo russo-statunitense in materia
di questioni strategiche e di sicurezza informatica. Anche questa volta
il Cremlino ha ritenuto che la strategia della tensione fosse l’unico
modo per farsi sentire dagli occidentali e che la nuova amministrazione
statunitense sarebbe stata disposta a fare più concessioni per potersi
concentrare sul confronto sempre più pressante con Pechino.
Vladimir
Putin sembra voler mettere un freno a quello che definisce il progetto
occidentale di trasformare l’Ucraina in una «anti-Russia» nazionalista
(1). In effetti, il presidente russo contava sugli accordi di Minsk,
firmati nel settembre del 2014, per ottenere il diritto di esercitare un
controllo sulla politica ucraina attraverso le repubbliche del Donbass.
È successo il contrario: non solo la loro applicazione è a un punto
morto, ma il presidente Volodimir Zelenskij, la cui elezione nell’aprile
del 2019 aveva dato al Cremlino la speranza di riannodare i legami con
Kiev, ha esacerbato la politica di rottura con il «mondo russo» avviata
dal suo predecessore. Peggio ancora, la cooperazione tecnologica e
militare tra Ucraina e Nato continua a intensificarsi, mentre la
fornitura di droni da combattimento da parte della Turchia, anch’essa
membro dell’alleanza, fa temere al Cremlino che Kiev sia tentata da una
riconquista militare del Donbass. Si tratterebbe quindi, per Mosca, di
riprendere l’iniziativa, finché è ancora in tempo. Ma al di là dei
fattori congiunturali all’origine delle attuali tensioni, bisogna notare
che la Russia non sta facendo altro che ribadire le richieste che
continua a formulare dalla fine della guerra fredda, richieste che
l’Occidente non considera né accettabili né legittime.
VIOLAZIONE DEL DIRITTO INTERNAZIONALE
L’equivoco
risale al crollo del blocco comunista nel 1991. Secondo logica, la
scomparsa del patto di Varsavia avrebbe dovuto portare anche alla
dissoluzione della Nato, creata per far fronte alla «minaccia
sovietica». L’«altra Europa» che aspirava ad avvicinarsi all’Occidente
avrebbe avuto bisogno di nuove forme di integrazione. Tanto più che le
élite russe, filo-occidentali come mai prima di allora, avevano
accettato la liquidazione del proprio impero senza combattere (2).
Tuttavia, le proposte in tal senso, avanzate in particolare dalla
Francia, erano state insabbiate sotto le pressioni di Washington. Non
avendo intenzione di essere derubati della propria «vittoria» su Mosca,
gli Stati uniti hanno spinto allora per l’allargamento verso est delle
strutture euro-atlantiche ereditate dalla guerra fredda, così da
consolidare il proprio dominio in Europa. A tal fine hanno potuto
contare su un alleato di peso, la Germania, desiderosa di riconquistare
il proprio ascendente sulla Mitteleuropa.
L’allargamento della
Nato a est è stato deciso già nel 1997, nonostante i dirigenti
occidentali avessero dato a Gorbaciov garanzie in senso contrario (3).
Negli Stati uniti, alcune figure di primo piano hanno espresso il loro
disaccordo. George Kennan, considerato l’artefice della politica di
contenimento dell’Urss, aveva previsto le conseguenze, tanto logiche
quanto dannose, di una tale decisione: «L’allargamento della Nato
sarebbe il più fatale errore della politica statunitense dalla fine
della guerra fredda. Ci si può aspettare che questa decisione susciti
tendenze nazionalistiche, antioccidentali e militaristiche nell’opinione
pubblica russa; che faccia rivivere un’atmosfera da guerra fredda nelle
relazioni est-ovest e che orienti la politica estera russa in una
direzione che non sarà quella che noi vogliamo veramente (4)».
Nel
1999 la Nato, celebrando il suo cinquantesimo anniversario in grande
stile, ha proceduto con il suo primo allargamento a est (Ungheria,
Polonia e Repubblica ceca) e ha annunciato che avrebbe portato avanti
questo processo fino ai confini russi. Contemporaneamente, l’Alleanza
atlantica è entrata in guerra contro la Jugoslavia, trasformando
l’organizzazione da blocco difensivo in alleanza offensiva, il tutto in
violazione del diritto internazionale. La guerra contro Belgrado è stata
condotta senza l’approvazione dell’Organizzazione delle Nazioni unite
(Onu), impedendo a Mosca di usare uno dei suoi ultimi strumenti di
potere rimasti, il suo diritto di veto nel Consiglio di sicurezza. Le
élite russe, che avevano puntato tanto sull’integrazione del proprio
paese nell’Occidente, si sono sentite tradite: la Russia allora
presieduta da Boris Eltsin, che aveva lavorato per l’implosione
dell’Urss, non si è vista trattare come un partner da ricompensare per
il contributo dato alla fine del sistema comunista, ma come il grande
perdente della guerra fredda, che doveva pagare il prezzo geopolitico
della sconfitta.
Paradossalmente, l’arrivo al potere di Putin
l’anno successivo ha coinciso con un periodo di stabilizzazione delle
relazioni tra Russia e Occidente. Dopo gli attentati dell’11 settembre
2001 il nuovo presidente russo ha moltiplicato i gesti di buona volontà
verso Washington, accettando l’installazione temporanea di basi
statunitensi in Asia centrale e ordinando allo stesso tempo la chiusura
delle basi ereditate dall’Urss a Cuba e il ritiro dei soldati russi
presenti in Kosovo. In cambio, la Russia auspicava che l’Occidente
accettasse il principio secondo cui lo spazio post-sovietico, che
definiva come il suo «estero vicino», rientrava nella sua sfera di
responsabilità. Ma mentre le relazioni con l’Europa, e in particolar
modo con la Francia e la Germania, si mantenevano piuttosto buone, le
incomprensioni con gli Stati uniti non hanno fatto che aumentare. Nel
2003, l’invasione dell’Iraq da parte delle truppe statunitensi senza
l’approvazione dell’Onu ha costituito una nuova violazione del diritto
internazionale denunciata di concerto da Parigi, Berlino e Mosca. Questa
opposizione congiunta delle tre principali potenze del continente
europeo ha confermato i timori di Washington in merito ai rischi per
l’egemonia statunitense di un riavvicinamento russoeuropeo.
Negli
anni successivi, gli Stati uniti hanno annunciato la loro intenzione di
installare elementi del loro scudo missilistico di difesa in Europa
orientale, in violazione dell’atto fondatore che regola i rapporti
Russia-Nato (firmato nel 1997), in base al quale sia Mosca che gli
occidentali non avrebbero installato nuove infrastrutture militari
permanenti nell’Europa dell’est. Washington ha rimesso in questione
anche gli accordi di disarmo nucleare, ritirandosi nel dicembre del 2001
dal trattato anti missili balistici (Abm, 1972).
Timore
legittimo o complesso ossidionale, a Mosca le rivoluzioni colorate nello
spazio post-sovietico sono percepite come delle operazioni destinate a
installare regimi filo-occidentali alle sue porte. Di fatto, nell’aprile
del 2008 Washington ha esercitato forti pressioni sui suoi alleati
europei per ratificare la vocazione della Georgia e dell’Ucraina a
entrare nella Nato, anche se la stragrande maggioranza degli ucraini si
opponeva allora a tale adesione. Allo stesso tempo, gli Stati uniti
hanno spinto per il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo, anche
in questo caso in violazione del diritto internazionale, trattandosi
giuridicamente di una provincia serba.
La Russia ha risposto a
questa apertura da parte degli Occidentali del vaso di pandora
dell’interventismo e della messa in questione dell’intangibilità dei
confini sul continente europeo intervenendo militarmente in Georgia nel
2008 e poi riconoscendo l’indipendenza dell’Ossezia del Sud e
dell’Abcasia. Così facendo, il Cremlino ha segnalato che farà di tutto
per impedire un ulteriore allargamento della Nato a est. Sfidando
l’integrità territoriale della Georgia, la Russia sta però violando a
sua volta il diritto internazionale.
Il risentimento russo ha
raggiunto un punto di non ritorno con la crisi ucraina. Alla fine del
2013, europei e statunitensi hanno sostenuto le manifestazioni che hanno
portato al rovesciamento del presidente Viktor Janukovi, nonostante la
sua elezione nel 2010 fosse stata riconosciuta come conforme agli
standard democratici. Per Mosca, gli occidentali hanno sostenuto un
colpo di Stato al fine di ottenere costi quel che costi l’aggregazione
dell’Ucraina al loro campo. Da quel momento, le ingerenze russe in
Ucraina – annessione della Crimea e sostegno militare non ufficiale ai
separatisti del Donbass – sono state presentate dal Cremlino come una
risposta legittima al colpo di Stato filooccidentale a Kiev. Dal canto
loro, le capitali occidentali hanno considerato questi interventi come
una sfida senza precedenti all’ordine internazionale post-guerra fredda.
SERVILISMO ATLANTISTA
Gli accordi di Minsk, firmati nel
settembre del 2014, hanno dato a Francia e Germania l’opportunità di
guidare i tentativi di trovare una soluzione negoziata al conflitto nel
Donbass. È stato necessario lo scoppio di un conflitto armato sul
continente perché Parigi e Berlino uscissero dalla loro passività. Sette
anni più tardi, tuttavia, il processo sembra essersi arenato. Kiev
continua a rifiutare di concedere un’autonomia al Donbass, sebbene sia
prevista dagli accordi. Di fronte all’assenza di reazioni da parte di
Parigi e Berlino, accusate di allinearsi alle posizioni ucraine, il
Cremlino sta cercando di negoziare direttamente con gli statunitensi,
che considera i veri sostenitori di Kiev. Allo stesso tempo, Mosca
sembra stupita del fatto che gli europei accettino tutte le iniziative
statunitensi, anche le più discutibili, senza reagire. È il caso ad
esempio del ritiro di Washington dal trattato sulle forze nucleari
intermedie (Inf) nel febbraio 2019, che avrebbe dovuto suscitare la loro
opposizione, essendo potenzialmente i primi obiettivi di questo tipo di
armi. Secondo la ricercatrice Isabelle Facon, la Russia «nutre, con
percepibile fastidio, la convinzione incrollabile che i paesi europei
siano irrimediabilmente incapaci di esercitare un’autonomia strategica
nei confronti degli Stati uniti e che rifiutino di assumersi le loro
responsabilità riguardo al deterioramento della situazione strategica
internazionale (5)».
Cosa ancora più sorprendente, quando russi e
statunitensi hanno ripreso contatti per discutere di questioni
strategiche, con l’estensione di cinque anni del trattato sulla
riduzione delle armi nucleari New Start, seguita dal vertice Biden-Putin
del giugno 2021, l’Unione europea, lungi dallo spingere per una
distensione con Mosca, ha rifiutato per principio un incontro con il
presidente russo. Per la Polonia, che ha contribuito a silurare questa
iniziativa, «[un incontro avrebbe accreditato] il presidente Vladimir
Putin invece di punire una politica aggressiva (6)». Questo sottrarsi al
dialogo è in contrasto con l’atteggiamento degli europei nei confronti
dell’altro grande vicino dell’Unione europea, la Turchia. Nonostante il
suo attivismo militare (occupazione di Cipro del Nord e di una parte del
territorio siriano, invio di truppe in Iraq, in Libia e nel Caucaso),
il regime autoritario di Recep Tayyip Erdoğan, tra le altre cose alleato
di Kiev, non è soggetto ad alcuna sanzione. Nel caso della Russia, al
contrario, la politica degli europei consiste solo nel minacciare
regolarmente una nuova serie di misure restrittive, a seconda delle
azioni del Cremlino. Per quanto riguarda l’Ucraina, si limitano a
ripetere come da dettami Nato che le porte sono aperte, nonostante le
grandi capitali europee, Francia e Germania in testa, abbiano espresso
in passato la loro opposizione e non abbiano in fondo alcuna intenzione
di integrare l’Ucraina nella loro alleanza militare.
La crisi
nelle relazioni russo-occidentali dimostra che la sicurezza del
continente europeo non può essere garantita senza – e tantomeno contro –
la Russia. Al contrario, Washington sta lavorando per favorire questa
esclusione, rafforzando al contempo la propria egemonia in Europa. Da
parte loro, gli europei occidentali, con la Francia in prima fila, non
hanno avuto la visione e il coraggio politico di contrastare le
iniziative più provocatorie di Washington e di proporre un quadro
istituzionale inclusivo che impedisca la ricomparsa di linee di faglia
nel continente. Il risultato di questo servilismo atlantista è che
francesi ed europei continuano a essere bistrattati dagli Stati uniti.
Il ritiro non concertato dall’Afghanistan, come la creazione di
un’alleanza militare nel Pacifico senza l’avallo di Parigi, non sono che
gli ultimi episodi di questo atteggiamento disinvolto. Sullo sfondo di
un rischio di guerra in Ucraina, gli europei si limitano ormai a
osservare da spettatori i negoziati russo-statunitensi in merito alla
sicurezza del Vecchio continente.
sabato 12 marzo 2022
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