QUALCHE
RIFLESSIONE SUGLI ATTENTATI DI PARIGI DEL 13 NOVEMBRE 2015
di Tommaso Meldolesi
I sei attentati che hanno messo l’altra sera in ginocchio la capitale
francese costituiscono un colpo durissimo alla democrazia e a tutta la civiltà
occidentale. Un fatto senza precedenti, annunciato dieci mesi fa dalla barbara
uccisione dei giornalisti della testata satirica Charlie Hebdo. Ancora un fatto di sangue che imbratta il centro di
Parigi, ancora una volta la Francia vittima della violenza dello stato islamico.
“La Francia, il paese che gli jiadisti
amano odiare” così il 14 novembre uno dei numerosi titoli del celebre
quotidiano Le Monde. Ma perché la
Francia? Perché proprio in questo momento? E perché non aver scelto i quartieri
commerciali o la sede del potere politico? Ci si pone queste e tante altre
domande mentre siamo scossi e disorientati dinanzi a tanta violenza. Siamo
ancora increduli nell’udire le notizie che ci giungono da Parigi: un numero di
morti sempre in crescita una situazione che non smette di preoccupare tanto gli
opinionisti, quanto e soprattutto la gente comune. In molti il giorno dopo gli
attentati, a Parigi, hanno trascorso la giornata asserragliati in casa per la
paura. Il governo stesso ha invitato i
parigini a non uscire se non per bisogni estremamente urgenti. La tensione è
alle stelle. E con una faccia tirata e la voce rotta dall’emozione, l’altra sera
quasi a mezzanotte, nel suo discorso alla nazione, il presidente della
Repubblica François Hollande ha parlato di due decisioni forti prese in queste
drammatiche circostanze: la prima è “lo stato di allerta” esteso a tutto il
territorio che potrebbe implicare la chiusura di alcune vie di comunicazione e
l’obbligo di perquisizioni; la seconda riguarda la chiusura delle frontiere al
fine d’impedire possibili arrivi in Francia di personaggi sospetti. Hollande ha
anche parlato della necessità di essere uniti e forti per fronteggiare questo
momento particolarmente difficile e di non tirarsi indietro di fronte alle
grandi difficoltà del paese, ma di avere fiducia nelle istituzioni affinché
riportino la situazione della capitale alla normalità.
E’ stato peraltro proprio il presidente Hollande, per la sua decisione
d’intervenire militarmente in Siria, ad essere una delle cause dell’attacco del
13 novembre. Ci sono tuttavia sono almeno altre due cause da prendere in
considerazione: la prima è che il Medio Oriente, dove la religione musulmana è
molto forte, ci sono campi di addestramento per giovani e anche per giovanissimi
ragazzini che vengono iniziati alla cultura del fanatismo religioso; tutto
questo è completamente sfuggito di mano alla cultura occidentale. La seconda è
che nelle banlieues che circondano
Parigi, soprattutto nella parte nord della città, intorno a Saint-Denis, per
l’appunto non lontano dallo “Stade de France”, una cospicua fetta della
popolazione vive in condizioni molto disagiate. Soprattutto i giovani, spesso
provenienti dal Nord-Africa, rimangono facilmente affascinati dall’ideologia
totalizzante dell’estremismo religioso. Là dove c’è una mancanza, una
situazione di povertà e sofferenza, l’adesione ad una fede religiosa
totalizzante rappresenta spesso l’unica
alternativa in cui potersi riconoscere, al punto da farsi imbottire la testa di
idee fanatiche che possono portare gli adepti a percorrere la strada verso il
sacrificio e l’auto-distruzione. Perché allora scegliere i quartieri “bene”, quelli in cui si decide il futuro del
paese, ma quelli invece che il 14
novembre in un bell’articolo su “Nazione Indiana”, Giacomo Sartori
definisce della “mixité”, ossia di un
mescolamento culturale e sociale molto variegato? Son questi i quartieri in cui la gente esce, si incontra
a bere un bicchiere dopo cena, i locali in cui si fa “la fête”: cose che molti ragazzi
delle banlieues non si possono
permettere. Per questa ragione decidono di scagliarsi non contro un mondo che
in realtà è molto lontano da loro come quello dell’alta finanza o delle grandi
decisioni politiche, ma con un mondo a loro più vicino, quello della
popolazione borghese da loro odiata perché felice e benestante. E, a causa della crisi che nel corso di questi
anni in Francia, come in Italia, ha allargato notevolmente il ventaglio della
povertà, empre più numerosi saranno coloro che devono abbandonare la vita parigina
e, per ragioni economiche, trovare un alloggio nelle zone limitrofe, nelle banlieues, appunto. Vengono allora in
mente le scene terribili del film La
Haine, il film de Mathieu Kassovitz uscito nel 1995 che già vent’anni fa
mostrava le grandi disparità che esistono tra le diverse fasce della
popolazione anche nella ricca e appariscente, oltre che colta Parigi. Là dove
ad essere escluso dallo sviluppo e dalla crescita della società è soprattutto
chi ha origini nord-africane o mediorientali,
la marginalità si spiega spesso attraverso una recriminazione profonda
intrisa d’odio a cui si aggiunge il fanatismo religioso. La manifestazione di
tutto ciò sfocia inevitabilmente nella violenza verso tutto ciò che incarna
l’agiatezza del mondo occidentale. Per di più, il modello scolastico che viene
proposto dall’Europa tenderà, a partire dal prossimo futuro, ad escludere
progressivamente le fasce più deboli della popolazione e a costringerle ad una crescente e continua
situazione di marginalizzazione. L’odio verso la società occidentale potrebbe
aumentare nelle banlieues a tal punto
da rappresentare per l’Europa un problema insormontabile.
In questo momento la società europea sta vivendo un periodo di grande
difficoltà, in quanto diversi governi in carica, nel tentativo di fronteggiare
la crisi, sempre più spesso si fanno
promotori di decisioni volte a soddisfare solo in parte le esigenze e le
aspettative della popolazione e la destra oltranzista e qualche movimento di
recente formazione non aspettano altro per cavalcare il malcontento soprattutto
presso i ceti meno abbienti. Ora, un ulteriore attacco sferzato nel cuore
dell’Europa, a Parigi che in passato fu la capitale indiscussa della cultura
europea, ma che gli ideatori e gli autori degli attentati del 13 novembre
considerano per i suoi attacchi alla Siria, oltre che per la sua vicinanza con
la Germania (uno degli obiettivi scelti dagli attentatori è stato lo stadio
dove si stava giocando una partita amichevole tra le formazioni dei due stati
europei) rende tutta l’Europa e tutto l’Occidente ancora più in bilico,
vulnerabile e in preda al terrore. Potrebbero verificarsi altri attentati?
Dove? A Roma? A Milano? A Londra? A New York? Non si sa nulla, ma serpeggia tra
la gente comune un sentimento di paura e d’impotenza di fronte agli attentati e
all’impossibilità di creare un dialogo sulle ragioni di tanta violenza. Tutto
questo porta, neanche tanto di rado, erroneamente, molte persone a considerare
potenzialmente pericolosi, tutti i musulmani che abitano in Occidente,
indipendentemente dalle loro posizioni o dal loro livello d’integrazione nella
società, e di creare quindi un clima di sfiducia e di frammentazione
all’interno della società.
Infine, gli attentati di Parigi hanno avuto luogo un venerdì, giorno di
riposo e di preghiera per la cultura islamica, ma per molti francesi, giorno in
cui inizia “la fête”
che precede il week-end: diversità di vedute, d’impostazione, di cultura.
Probabilmente c’è chi interpreta la “fête” del venerdì sera o l’atmosfera d’euforia causata da
un concerto rock, come i segnali del degrado e della corruzione della società,
ma a questo non si può contrapporre la violenza che semina il terrore, il
panico e la morte di vittime innocenti. Nella cultura occidentale fondata sulla
dialettica, sul dialogo e sul confronto di opinioni diverse, qualsiasi
manifestazione di violenza e di morte è da condannare, senza mezzi termini.
15 novembre 2015
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