martedì 28 aprile 2020

In Europa, l’Italia è il Paese dove da anni la probabilità di prendersi un’infezione negli ospedali, è in assoluto la più alta: il 6%. È la conseguenza di un graduale aumento di rischi specifici inclusa la scarsa formazione degli operatori sanitari a osservare le misure di sicurezza, a partire da quelle igieniche. In questo quadro è esploso il Covid-19.
Oggi il personale sanitario, che conta 19.942 contagiati e 185 morti, attraverso le sue rappresentanze sindacali ha presentato un esposto ai Nas oltre che alle procure di dieci regioni: contestano alle aziende ospedaliere di non avere tutelato medici e infermieri come dovuto.
La questione riguarda anche noi cittadini, perché i medici positivi al virus rischiano di trasformare gli ospedali in focolai del contagio, e il livello di sicurezza del personale sanitario è una delle chiavi del successo (o dell’insuccesso) della lotta contro il coronavirus.
Il piano contro le pandemie mai attuato
Vediamo come sono andate le cose, a partire dai presidi di tutela numero uno: le mascherine. Le Regioni avevano sul tavolo il piano contro le pandemie (dal 2007 in Veneto ed Emilia Romagna, e ben due a partire dal 2006 in Lombardia). Una disposizione chiave dice: «Fate scorta di dispositivi di protezione, mascherine, guanti, tute». Al contrario della Germania, le nostre aziende sanitarie non lo hanno mai attuato, e quando è arrivata la tempesta i dispositivi mancavano. Va sottolineato che, per i medici, le mascherine dovevano essere le FFP2 e P3. Lo richiedeva l’Inail. Siccome scarseggiavano le regole sono state cambiate in corsa dall’Oms e poi dal governo stabilendo che bastavano quelle chirurgiche, che proteggono il paziente ma non l’operatore. È andata avanti così fino a poco tempo fa, e quindi si sarebbe dovuto, quantomeno, fare il tampone a medici e infermieri esposti, per tenerli fuori dagli ospedali in caso di positività, come raccomanda dal 25 marzo il Ministero della Salute. D’altra parte, fin da fine febbraio, con l’analisi dei primi casi di Vo Euganeo e di Codogno, è stato confermato che a trasmettere il virus sono anche persone senza sintomi, ma infette.
Per chi si ammala a casa niente infortunio
Ogni Regione ha le sue regole, che poi vengono recepite in modo diverso dalle singole aziende sanitarie. Una però vale per tutti: chi si ammala di Covid-19 torna al lavoro dopo due tamponi negativi. All’ospedale di Lodi succede che almeno cinque medici positivi al test, vengono fatti rientrare dalla malattia dopo un solo tampone negativo.
Ma per capire come ogni ospedale si regola con i propri operatori prendiamo tre casi: il Papa Giovanni XXIII di Bergamo, l’Azienda Ospedaliera di Parma e quella di Padova nei giorni dell’emergenza, cioè dal 20 febbraio fino a Pasqua. Nei tre ospedali, ai medici che si ammalavano in corsia veniva subito fatto il test, e i positivi tornavano in servizio solo quando avevano due tamponi negativi. Ma cosa succedeva quando un medico o un infermiere scopriva a casa di avere i sintomi del Covid-19? Ai medici di Padova e di Parma veniva fatto il tampone, e se positivo scattava l’infortunio sul lavoro. A Bergamo, invece, se non finivano ricoverati, spesso restavano a casa in malattia finché non erano guariti, senza che venisse fatto alcun tampone per sapere se avevano contratto la malattia, esponendo così i familiari. Il tampone non veniva fatto nemmeno al ritorno in ospedale, per verificare se erano ancora contagiosi. Inoltre, per loro non si poteva applicare l’infortunio legato al Covid-19, perché la direttiva Inail prevede l’esito del tampone positivo (che nessuno ha fatto).
Una differenza non da poco: con l’infortunio, in caso di invalidità o morte, sono previste indennità, con la semplice «malattia» invece a molte direzioni sanitarie hanno pure imposto inizialmente un taglio alla busta paga sui primi dieci giorni di assenza, applicando la legge Brunetta.
La diffida alla Regione Lombardia
E così decine di ospedalieri sono tornati in corsia, a contatto con i pazienti, senza sapere di cosa si erano ammalati. Dopo le continue proteste delle associazioni dei medici, il 10 aprile la Regione Lombardia ha emanato un’ordinanza in cui viene prescritto il tampone anche ai medici che si sono ammalati a casa, o che hanno sintomi. Ebbene, venerdì 24 aprile l’Anaao, insieme a tutte le altre associazioni, ha inviato una diffida alla Regione perché diverse aziende sanitarie si rifiutano di fare il tampone al personale sanitario che ha riscontrato i sintomi del Covid-19 mentre era a casa e anche a quelli che stanno in corsia (tosse, perdita dell’olfatto e del gusto) se non hanno anche la febbre sopra 37,5.
I medici asintomatici a Parma, Padova, Bergamo
Ci sono poi i casi dei medici asintomatici che dentro l’ospedale hanno avuto contatti senza mascherina con persone malate. A Bergamo nei giorni successivi al «contatto a rischio» non veniva fatto alcun tampone per scoprire se erano stati contagiati. In situazioni analoghe a Parma veniva fatto il test entro sette giorni, e chi risultava positivo veniva mandato a casa.
A Padova invece venivano fatti 4 tamponi nell’arco di 14 giorni. Padova è anche l’ospedale che in assoluto ha fatto più tamponi: ogni 10 giorni vengono sottoposti al test tutti gli operatori dei reparti Covid, e ogni 20 giorni il personale degli altri reparti. Il risultato è che il 39% dei medici positivi è asintomatico. Vuol dire che senza questo monitoraggio avrebbero potuto contagiare familiari e pazienti a loro insaputa.
Quando ad ammalarsi è il medico di base
Infine i medici di famiglia. Per loro non ci sono procedure da seguire e fino a pochi giorni fa nemmeno i dispositivi di protezione. Con il Covid, l’Inps ha sospeso le visite fiscali ma ai medici è stato lasciato l’obbligo di vedere il paziente per fare il certificato medico, e quello di fare le ricette di carta per una serie di farmaci, come le terapie del dolore. Cosa succede quando un medico di base si ammala? In Lombardia ancora oggi in buona parte possono contare sul tampone soltanto se finiscono al pronto soccorso. In Emilia Romagna bastavano i sintomi, come in Veneto, dove invece da quasi un mese si esaminano tutti i medici di famiglia, anche senza sintomi. La velocità varia a seconda dei territori. Si va dal 97% in provincia di Padova, al 25% di quelli della provincia di Verona (fonte Fimmg).
Scudo penale per tutti, ma i medici non ci stanno
Intanto dal 2 aprile in Emilia sono partiti i test sierologici su tutto il personale sanitario, in Lombardia sono iniziati il 23 aprile, con diversi gradi di priorità. Il risultato di tutto questo è che il tasso di infezione degli operatori sanitari, calcolato dall’ISS, in Lombardia è 19,1 volte superiore a quello della media della popolazione, in Emilia Romagna 6 volte, e in Veneto 3,9 volte. Li abbiamo chiamati giustamente «eroi», ma visto che durante la pandemia non avevano le condizioni adeguate per curare i pazienti di Covid-19, i medici hanno chiesto uno scudo penale e civile limitato ai mesi dell’epidemia. Maggioranza e opposizione si sono dette favorevoli, ma hanno presentato emendamenti al Cura Italia (uno firmato da Salvini per la Lega e uno da Marcucci per il Pd) che toglievano ogni responsabilità anche ai dirigenti delle aziende sanitarie e delle Regioni, impedendo anche al personale sanitario di contestare inadempienze al datore di lavoro. I primi ad insorgere sono stati proprio i medici dicendo che se così dovevano andare le cose avrebbero rinunciato allo scudo anche per se stessi. Alla fine gli emendamenti sono stati ritirati, ma il Parlamento ha disposto con un ordine del giorno che si tornerà sulla questione a breve. Chiarire cosa ha funzionato e quali errori sono stati fatti è un dovere: nei confronti del personale sanitario, delle vittime, e dei cittadini che finanziano il sistema sanitario pagando le tasse
    tura
    Donna

    Roma
    Milano
    Napoli

11
147.693
In Germania i casi di contagio tornano a salire dopo l’allentamento del lockdown
A pochi giorni dall’allentamento del lockdown il tasso di contagio da Coronavirus in Germania è tornato a salire, fermandosi a quota 1 per la prima volta dallo scorso mese di marzo. Aumenta anche il tasso di mortalità, collegato allo scoppio di piccoli focolai nelle case di riposo per anziani. Preoccupata Angela Merkel, che giovedì si confronterà con i leader regionali per decidere il da farsi ma la pressione economica è alle stelle per far riaprire tutto.
Esteri
28 aprile 2020 11:59
di Ida Artiaco

In Germania è ripresa l'epidemia da Coronavirus dopo un primo allentamento delle misure restrittive per il contenimento dell'infezione. Dal 20 aprile, infatti, era cominciata una cauta quanto graduale ripartenza di alcune attività, come negozi con una superficie inferire agli 800 metri quadrati, concessionarie di auto, punti vendita di biciclette e librerie. Addirittura, in Sassonia sono state riaperte anche le scuole. Ma, purtroppo, nelle ultime ore il tasso di contagio è salito di nuovo: da marzo, per la prima volta, ha toccato di nuovo il valore 1, cioè una persona è in grado di contagiarne un'altra. La scorsa settimana era fermo a 0,7, mentre è aumentato contemporaneamente il tasso di mortalità, in parte dovuto a piccoli focolai che sono scoppiati nelle case di riposo per anziani, raggiungendo il 3,8 per cento. Lo ha reso noto il Robert Koch Institut per le malattie infettive, che ha confermato come finora si siano registrati in tutto il Paese 156.337 casi e 5.913 vittime dall'inizio dell'emergenza.

Il presidente dell'Istituto, Lothar Wieler, in una conferenza stampa tenutasi a Berlino questa mattina ha sottolineato ancora una volta l'importanza di rimanere a casa il più possibile e di osservare il distanziamento sociale di almeno un metro e mezzo per evitare che il contagio cominci a crescere di nuovo. "Vogliamo difendere il successo ottenuto nelle scorse settimane", ha aggiunto, riferendosi alla capacità della Germania, che era stata ammirata in tutto il mondo, di aver messo sotto controllo in poco tempo il dilagare dell'epidemia. A rassicurare cittadini e decisori politici è intervenuto il virologo Jonas Schmidt-Chanasit, che al quotidiano Bild ha spiegato che "il leggero aumento dell'indice R con 0 che stiamo vivendo ora è normale, come abbiamo visto nelle ultime settimane. Non è collegato al weekend di Pasqua e agli spostamenti delle persone, che comunque stanno rispettando tutte le misure varate".

Al momento, vige il divieto di contatto e da ieri è obbligatorio indossare mascherine nei negozi e sui mezzi di trasporto pubblico. Altre riaperture sono in programma a partire dal prossimo 3 maggio, proprio come in Italia. Anche le scuole dovrebbero riaprire per questa data, in tutti i Land. Ma bisognerà ora aspettare la prossima mossa di Angela Merkel, che proprio in concomitanza con il primo allentamento del lockdown aveva detto di essere pronta a "chiudere tutto se il numero di nuovi infetti fosse cresciuto esponenzialmente". Giovedì prossimo è in programma un confronto tra la Cancelliera e i leader regionali proprio in vista dei prossimi allentamenti. L'esecutivo ha già chiarito di non voler procedere a un’accelerazione dell'allentamento delle misure restrittive, ma la pressione politica ed economica a riguardo sale e il dibattito è acceso.

continua su: https://www.fanpage.it/esteri/incubo-in-germania-i-casi-di-contagio-tornano-a-salire-dopo-lallentamento-del-lockdown/
https://www.fanpage.it/
Ogni giorno tutti i Paesi d’Europa (e non solo) comunicano i bollettini ufficiali con contagi e decessi. Ma, in particolare sul numero di vittime, quanto sono davvero attendibili Italia, Spagna, Regno Unito, Francia, Svezia, Svizzera e Paesi Bassi? Per la Germania e il Belgio non è possibile saperlo, perché non comunicano ancora i dati necessari a scoprirlo. In base alle statistiche ufficiali, oggi l’Italia è il Paese europeo più colpito dopo la Spagna. Il drammatico bilancio delle vittime, ormai intorno alle 27 mila, è addirittura il più alto. Per capire, però, il reale impatto del virus sul nostro Paese rispetto al resto d’Europa bisogna sapere chi dice davvero la verità e quanto è ridimensionato il numero dei decessi. I dati sulle morti da Covid-19, che ci vengono comunicati quotidianamente dalla Protezione civile, si riferiscono solo ai pazienti con una diagnosi accertata tramite il tampone, e quindi sono inferiori rispetto alla realtà. La stessa cosa avviene negli altri Paesi europei considerati. Un’elaborazione dell’Istituto per gli studi di Politica internazionale (Ispi) sui morti registrati dai rispettivi Istituti di statistica nazionali, che Dataroom consulta in anteprima, ci permette di mettere a confronto Paese per Paese il numero dei morti di quest’anno con quelli degli anni precedenti. La differenza dovrebbe corrispondere alle morti da Covid-19, ma rispetto ai dati comunicati durante i mesi dell’epidemia c’è una notevole distanza. Cosa vuol dire? Che sono i morti sottostimati, cioè i pazienti che hanno contratto la malattia ma non sono stati tamponati e quelli deceduti per effetti collaterali del coronavirus: dai pazienti con infarti, ictus, aneurismi, o altre patologie, non visitati e soccorsi in tempo a causa degli ospedali pieni. Una volta individuato questo numero è possibile sapere anche quali sono i Paesi che hanno barato di più nella comunicazione e che hanno il tasso di mortalità in eccesso più alto per milione di abitanti.
Il confronto con gli anni precedenti
Il periodo preso in considerazione tra un Paese e l’altro può variare di qualche giorno, in base all’aggiornamento che ciascuno fa, ma vengono sempre analizzati i dati dei decessi fotografati dagli Istituti di statistica nazionali tra marzo e aprile 2020 rispetto alla media degli ultimi quattro anni (2015-2019). Per avere un confronto attendibile ovviamente non sono paragonati i dati dell’ultimo minuto. Dimentichiamoci, allora, per un attimo i bollettini quotidiani e guardiamo i morti registrati dalle anagrafi. La Spagna conta 68.056 decessi contro i 39.981 dello stesso periodo negli anni precedenti. È il Paese dove la crescita è maggiore: più 70%. I Paesi Bassi fanno registrare un più 50% (22.352 contro 14.895). Segue l’Italia con 78.757 decessi al 4 aprile contro 57.882. Gli ormai noti dati Istat ci dicono che a livello italiano l’aumento in media è del 36% (ben sappiamo, però, che la più colpita è la Lombardia con incrementi che arrivano a decuplicarsi nei comuni della Bergamasca). Anche il Regno Unito registra un più 36% (63.842 contro 46.877). Poi Svizzera più 25%, Francia e Svezia più 20%.
Vittime reali e morti comunicati
Questo aumento dei decessi, in gergo statistico, viene definito «eccesso di mortalità». Per fare un passo in avanti occorre quantificare la distanza che c’è tra le vittime in più che si contano quest’anno e i morti che ci vengono comunicati tutti i giorni dalla Protezione civile e dalle autorità degli altri Paesi. Il confronto fa emergere un numero: quello delle vittime non contemplate dai bollettini Covid-19, ovvero la sottostima. In cima alla graduatoria in termini assoluti c’è il Regno Unito (meno 8.184), poi la Spagna (meno 7.326), quindi l’Italia (meno 5.547), i Paesi Bassi (meno 3.797), la Francia (meno 3.679), la Svizzera (meno 339) e la Svezia (298). Annota il ricercatore dell’Ispi Matteo Villa: «Qui capiamo, ancora, cosa manca per un approccio più sistematico alla Fase 2: riuscire a tener traccia delle persone decedute è cruciale per poter comprendere come stia procedendo realmente l’epidemia in ciascun Paese».
La sottostima dei decessi Covid-19
È ovvio che non tutti i decessi in eccesso possono essere considerati di sicuro morti da Covid-19. Ma il numero è la spia più attendibile che possiamo avere sul reale tasso di incidenza dell’epidemia sulla popolazione, i cosidetti «effetti collaterali», che include appunto i decessi non da coronavirus, ma di pazienti che non sono riusciti a essere curati al meglio in un momento in cui gli ospedali sono stati travolti dai malati Covid-19. Qui prendiamo in considerazione la differenza tra i decessi reali e quelli comunicati non più in termini assoluti, ma in percentuale. Ne esce la classifica dei Paesi con i bollettini meno affidabili. La sottostima maggiore è dei Paesi Bassi (104%), a ruota il Regno Unito (93%), la Francia (41%), l’Italia (36%), la Svezia e la Spagna (35%) e la Svizzera (34%). «Non è vero che l’Italia sottostima i decessi molto più degli altri Paesi europei — sottolinea Villa —. Anzi, è sorprendente constatare come siano più o meno tutti in linea tra il 30 e il 40%, tranne Paesi Bassi e Regno Unito che invece sono molto lontani dagli altri». Complessivamente, la verità è che i dati comunicati sono sottostimati del 49%. Manca, insomma, all’appello una vittima su tre.
L’incidenza sulla popolazione
I dati reali — ossia i morti in più rispetto agli anni scorsi — ci permettono anche di sapere qual è il Paese europeo davvero più colpito per milione di abitanti. Spagna 663 decessi, Italia 586, Regno Unito 554, Paesi Bassi 524, Francia 482, Svezia 295, Svizzera 246. «Questa classifica è molto più realistica di quella che otterremmo utilizzando i soli numeri comunicati», riflette Villa.
Il caso Belgio
Il Belgio è un caso a sé, addirittura quasi ignorato. Non è possibile calcolare il numero reale di morti causati dalla pandemia perché non è aggiornato il registro con il numero totale dei decessi a marzo e aprile. Il governo belga, però, dice di essere più trasparente rispetto al resto d’Europa perché, dentro ai suoi 7.200 morti Covid dichiarati, include anche i sintomatici non testati e le morti sospette dentro le case di riposo, dove si sta consumando una silenziosa strage: quasi il 50% dei morti. Anche se prendiamo questo numero per buono, restano fuori dal conto tutti gli altri. Infatti se si confronta l’unico dato disponibile, ovvero la media dei decessi degli anni 2009-2018, si può vedere per esempio che dal 7 al 13 aprile il numero dei morti Covid-19 supera quello relativo a tutte le altre cause.
Resta il fatto che se vogliamo attenerci ai bollettini ufficiali comunicati da tutti i Paesi, il Belgio oggi conta il numero di decessi più alto di tutto il continente (e forse nel mondo): 597 per milione di abitanti, contro i 480 della Spagna e i 430 dell’Italia. Un dato disastroso se si considera che non è solo un piccolo Paese dell’Unione (11 milioni di abitanti), ma rappresenta il cuore stesso dell’Europa. Bruxelles è la sede del Parlamento e della Commissione europea, e la ripartenza passa anche da lì. Eppure, sulla gestione della pandemia è anche il Paese sul quale ci sono meno informazioni.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

giovedì 16 aprile 2020


MORTE DELLO SCRITTORE CILENO Luís Sepúlveda

di Tommaso Meldolesi

Luís Sepúlveda, scrittore, attivista politico e difensore dei diritti umani è morto stamattina a causa del COVID-19  Era nato in Cile nel 1949. Avendo subito l’influenza di un nonno ed uno zio anarchici, s’iscrive giovanissimo al Partito comunista. Scrive sul giornale di sinistra “Clarín”  ed è insignito a soli vent’anni del premio “Casa de las Americas” per la sua prima raccolta di racconti Cronicas de Pedro Nadie. Gran viaggiatore,  soggiorna in Russia dove, con una borsa di studi, segue corsi di drammaturgia, poi tornato in Cile, si diploma in regia teatrale. Entra nelle file dell'Ejercito de Liberacion Nacional in Bolivia e, come membro del partito socialista, nella guardia personale di Salvador Allende. Ribelle e anticonformista viene arrestato e torturato da Pinochet nel 1973. Liberato grazie ai numerosi appelli di Amnesty International, gli deve fuggire in esilio per otto anni. Scappa in Brasile e poi in Paraguay, quindi è nella capitale dell'Equador dove riprende la sua attività di drammaturgo. Soggiorna pure in Amazzonia, da cui trarrà ispirazione per il romanzo Il vecchio che leggeva romanzi d’amore. Per alcuni anni viaggia in Francia, in Germania, poi in Spagna, mostrando sempre un grande interesse per la difesa dei diritti umani e dell’ambiente. In questo senso collabora con l'Unesco per cui studia l'impatto dell'occidente sulla popolazione di indios Shuar e con Greenpeace ad Amburgo. In una recente intervista a Il Manifesto del 22 ottobre 2019, dichiara di provare una grande rabbia di fronte a tempi che si credevano superati. L’avanzata della destra violenta è evidente in quasi tutto il continente latinoamericano: “Nel fondo c’è una parte dell’eredità di Pinochet. E appena sopra c’è un’estrema destra fascista nello stile di Bolsonaro […] Il Cile è un paese dove le disuguaglianze sociali sono incredibili”. La repressione del potere contro l’ira delle classi popolari può portare a una fase tragica della storia del Cile. L’unica soluzione, afferma Sepúlveda, potrebbe venire dai giovani, anche se per il momento manca un vero e proprio progetto politico e risorse intellettuali adeguate che possano aprire nuove prospettive per il paese. Di  lui ricordiamo Il Potere dei sogni, dove l’autore mostra, con grande dolcezza, come la fratellanza e la solidarietà  costituiscano i pilastri fondamentali delle relazioni umane; Cronache dal cono Sud, Patagonia Express e la meravigliosa  Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare , che è diventato un successo internazionale Sulla scia di quest’opera,  l’autore scrive Storia di un gatto e del topo che diventò suo amico, Storia di una lumaca che scoprì l'importanza della lentezza, Storia di un cane che insegnò a un bambino la fedeltà, e Storia di una balena bianca raccontata da lei stessa.
Resteranno nella mente di chi si batte ogni giorno contro le ingiustizie e i diritti dei più deboli, le storie e i racconti di Luís Sepúlveda, profondamente intensi, poetici e umani.




lunedì 6 aprile 2020


Devo dire di non essere così contrario ad abolire il valore legale dell'esame di maturità, visto che siamo l'ultimo paese d'Europa a mantenerlo ancora in vita e che onestamente in questo momento questo snellirebbe un po', anzi un po' tanto le cose, in quanto ci si potrebbe maturare con i voti dell'ultimo anno, senza spendere inutilmente un sacco di soldi! Quanto poi a far ripartire la scuola sulla base delle nuove tecnologie alle quali i docenti dovranno volenti o nolenti adattarsi, e sulle competenze, non più sulle conoscenze questo è un altro discorso. Il docente è un FORMATORE, OSSIA UN PROFESSIONISTA DELL'EDUCAZIONE. IL SUO COMPITO È QUELLO DI GUIDARE IL RAGAZZO, DI ASSISTERLO, DI CORREGGERLO, DI SPIEGARGLI ALCUNE INESATTEZZE CHE IL RAGAZZO OUO' AVERE NEL CORSO DEL PROCESSO DI APPRENDIMENTO, D'INCORAGGIARLO, DI SPRONARLO, DI TRASMETTERGLI FIDUCIA, DI AIUTARLO A CRESCERE! e questo mi dispiace non si avverare soltanto attraverso l'uso delle nuove tecnologie. ALLE COMPETENZE CI SI ARRIVA SICURO MA ATTRAVRESO UN CAMMINO LUNGO E SPESSO TORTUOSO E DIFFICILE OVE IL DOCENTE DEV'ESSERE PRESENTE PER SOSTENERE IL RAGAZZO NEL SUO PROCESSO DI CRESCITA E DI PERFEZIONAMENTO! ALTRIMENTI IL DOCENTE RISCHIA DI DIVENTARE COME UNA SCATOLA DI PELATI CHE SI COMPRA AL SUPERMERCATO E CHE L'ALUNNO SCEGLIE NON IN FUNZIONE DELLE CONOSCENZE CHE POTREBBE ACQUISIRE, MA IN FUNZIONE DI QUANTO IL DOCENTE LO FA STUDIARE ROMPENDOGLI LE SCATOLE ED ESIGENDO DA LUI IMPEGNO E SERIETA' O NON LO FA STUDIARE FREGANDOSENE DI LUI MA LASCIANDOLO PIU' LIBERO DI FARSI GLI AFFARI PROPRI; DI COME IL DOCENTE LO POTREBBE VALUTARE, QUINDI DEI VOTI E DELLA VALUTAZIONE FINALE CHE E' QUANTO PIU' INTERESSA AI NOSTRI ALUNNI: INSOMMA IL PROF SAREBBE QUANTO DI PIU' CONVENIENTE SI TROVA SUL MERCATO IN UN RAAORTO DI QUALITA'-PREZZO! E PER FAVORE FACCIAMO CHE IL NOSTRO RUOLO DI DOCENTI NON SI RIDUCA A QUESTO!