mercoledì 21 ottobre 2020


 

Pier Paolo Pasolini ed Erri De Luca: due sguardi “profetici”sulle migrazioni

Pubblicato il da Comitato di Redazione

Descrizione: La Pietà di Pignon-Ernest (ph. Avallone)

La Pietà di P. P. Pasolini, di  Pignon-Ernest (ph. Avallone)

di Vittorio Valentino

Tenteremo in queste pagine di mettere a confronto due autori diversi tra loro ma che hanno formulato, secondo noi, un pensiero di portata “profetica” assai comparabile sul fenomeno della migrazione, nonostante ciò sia stato fatto in periodi diversi. Pasolini nasce nel 1922 e muore nel 1975, quando Erri De Luca aveva 25 anni. De Luca parla diverse volte di Pasolini nei suoi scritti, per il quale egli prova affetto e grande stima, come artista e osservatore della storia. In un’intervista concessa al Corriere della Sera nel 1994, De Luca dice:«La verità è che si tratta di un autore troppo vario per le mie forze: merita più cuore e intelligenza di quanto io gli possa prestare. Mi è caro soprattutto come poeta, perché sentiva l’obbligo di governare in modo più sereno le sue risorse» (D’Errico, 1994).

Il poeta e scrittore, sulla questione della migrazione, con quarant’anni d’anticipo, aveva riflettuto e previsto eventi con un esito che si è rivelato sorprendentemente esatto. Pasolini ha intuito e tradotto in versi, durante il suo tempo, gli sconvolgimenti che sarebbero avvenuti negli anni a venire, nella poesia del 1964 dal titolo evocativo, “Profezia”, inserita nella raccolta Poesie in forma di rosa.

Descrizione: oesia in forma di rosaIn questi versi, dedicati a Jean Paul Sartre, appare il personaggio di Alì dagli occhi azzurri, riflesso di un’alterità del Sud venuta dal “Terzo Mondo” che, secondo Pasolini cambierà le sorti dell’Europa e di tutto l’Occidente. Il personaggio è al centro del poema scritto in forma di croce, in cui l’autore prevede l’arrivo di un’ondata migratoria proveniente dai Paesi arabi, nel momento in cui l’emigrazione interna italiana è all’apice (Biancofiore. 2007).  Ciò rappresenta forse per Pasolini la speranza di una rivoluzione guidata dai popoli oppressi di quel Terzo Mondo, idealmente vicini al sottoproletariato italiano. Il poema si apre su una constatazione che riguarda l’immigrazione interna all’Italia, dal Sud verso Nord, quella di un “figlio” della Calabria, simbolo di un Sud perduto. Egli appare deluso dai politici, da una riforma agraria mai applicata, circondato e saturo di nuovi oggetti di consumo, colto sul punto di lasciare il suo stile di vita e la sua terra:

 « …e così aveva abbandonato
le sue casupole nuove
come porcili senza porci,
su radure color delle feci,
sotto montagnole rotonde
in vista dello Jonio profetico.
Tre millenni svanirono
                                        Non tre secoli, non tre anni, e si sentiva di nuovo nell’aria malarica
                                        l’attesa dei coloni greci. Ah, per quanto ancora, operaio di Milano,
                                        lotterai solo per il salario? Non lo vedi come questi ti venerano?
Quasi come un padrone.
Ti porterebbero su
dalla loro antica regione,
frutti e animali e i loro
feticci oscuri, a deporli
con l’orgoglio del rito
nelle tue stanzette novecento,
tra frigorifero e televisione,
attratti dalla tua divinità […] » (Pasolini, 1976: 95)

Per Pasolini, il rapporto con la modernità porta con sé un profondo distacco, una perdita dell’innocenza che si accompagna alla perdita della relazione tra il contadino e la sua terra: il mito del “barbaro” che finisce con l’imborghesirsi e perdere il proprio rapporto con la verità. Il messaggio ha il tono di un monito biblico e una potente portata sociologica e, al contempo, una lettura politica, come spiega lo scrittore poeta e filosofo Alberto Gianquinto:

«Questo mito attraversa i versi di Alì (il sottoproletariato) e diventa impostazione stessa di una modalità narrativa: la forma è quella narratologica, già presentata nella dedica a Sartre (che “mi ha raccontato la storia di Alì dagli occhi azzurri”) e poi costruita con la temporalità testuale di un passato biblico. In questo mondo del passato emerge e può liberamente emergere la doppia figura di un mito (passato) che è insieme utopia (futuro): la doppia figura, di Cristo e di Marx (e meglio del  “comunismo”)». (Alì dagli occhi azzurri. Una profezia due utopie », in Linguaggi, sulla pagina: http://www.pasolini.net/saggistica_profezia-gianquinto_imageuro.htm.)

Questo poema in forma di croce, simbolo della redenzione e del sacrificio, acquista il valore di una profezia dalla portata biblica: la religione viene percepita come una presenza antica, attraverso l’immagine di Cristo come leva venuta dal passato, capace di cambiare il mondo della modernità arida e feroce.

Il titolo “Profezia” non potrebbe quindi essere più appropriato, in quanto dopo il periodo di forte migrazione interna, l’Italia conosce dalla fine degli anni ’80 del Novecento, proprio quell’ondata migratoria intuita dal poeta negli anni ’60, tangibile oggi negli anni 2010. Ciò ci mette di fronte all’incredibile facoltà d’osservazione di Pasolini, capace di leggere così profondamente il proprio tempo, da poter dedurre le conseguenze delle scelte politiche e sociali a lunghissimo termine. Nei versi successivi stavolta il “figlio” è Alì, venuto da un Sud ancora più profondo:

 Alì dagli Occhi Azzurri
uno dei tanti figli di figli,
scenderà da Algeri, su navi
a vela e a remi. Saranno
con lui migliaia di uomini
coi corpicini e gli occhi
di poveri cani dei padri
                                       sulle barche varate nei Regni della Fame. Porteranno con sé i bambini,
                                        e il pane e il formaggio, nelle carte gialle del Lunedì di Pasqua.
                                         Porteranno le nonne e gli asini, sulle triremi rubate ai porti coloniali.
                        Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,
            a milioni, vestiti di stracci
                                      asiatici e di camicie americane» (Pasolini, 1976: 97)

Tuttavia, Alì non è solo l’immagine del migrante disperato, ma anche quella della classe proletaria del suo tempo, del movimento operaio, impregnato di marxismo. La presenza di questo passato “ideale”, costituito da un cristianesimo ritualizzato e rappresentato quasi come movimento precursore a quello operaio, all’interno di una geografia semitica (Alì venuto dallo stesso Oriente del Cristo), farà nascere e soprattutto rinascere, un movimento nuovo:

«Subito i Calabresi diranno,
come malandrini a malandrini :
“Ecco i vecchi fratelli,
coi figli e il pane e il formaggio!”
Da Crotone o Palmi saliranno
a Napoli, e da lì a Barcellona,
a Salonicco e a Marsiglia,
nelle città della Malavita.
Anime e angeli, topi e pidocchi,
col germe della Storia Antica,
voleranno davanti alle willaye» (Pasolini, 1976: 97)

Non è chiaro se Pasolini abbia utilizzato la simbolica del migrante in modo letterale, se egli avesse realmente pensato ad un sommovimento dei popoli del Sud, del Terzo Mondo, che bussano alle nostre porte come accade oggi, o se egli avesse intuito solo un significativo cambiamento venuto dalle classi meno abbienti. Un impulso dalle classi subalterne, da quel sottoproletariato dal quale è affascinato e che in qualche modo nutre le sue speranze: uomini e donne che portano in sè il «germe» della storia antica.

Descrizione: cena-da-Uccellacci-e-uccellini-1966

Scena da Uccellacci e uccellini, 1966

Gli elementi sociologici del passato, di una sorta di “epoca d’oro” perduta, uniti a quelli futuri, fanno oscillare il lettore tra diversi spazi temporali, ma anche tra innocenza e crudeltà, in una più complessa visione dell’esistenza e dei valori canonici. Questa oscillazione viene rappresentata anche nell’esperienza cinematografica dell’autore e alcuni versi di “Profezia” vengono pronunciati dal personaggio di San Francesco, creando un sorprendente ribaltamento dell’immagine abituale del santo, come fa notare Peter Kammerer, scrittore e docente di Lettere e Filosofia:

«Versi della Profezia ne troviamo infine nella predica di San Francesco nel film Uccellacci e uccellini (girato nell’inverno 1965/66). La citazione fatta nel film nella sceneggiatura non c’è, ma inserita più tardi, probabilmente durante il doppiaggio. Nella sceneggiatura la predica di San Francesco agli uccelli è quella della tradizione [...] Una visione di San Francesco piuttosto scontata, arciconosciuta, quasi noiosa, direi. Pasolini probabilmente ha capito questo e gli è venuta l’idea di mettere in bocca a San Francesco alcuni versi della Profezia. Così il santo si rivolge agli uccelli con ben altra forza: “Voi che non volete sapere e vivete come assassini tra le nuvole e vivete come banditi nel vento e vivete come pazzi nel cielo, voi che avete la vostra legge fuori dalla legge e passate i giorni in un mondo che sta ai piedi del mondo e non conoscete il lavoro e ballate ai massacri dei grandi”. Ecco il Terzo Mondo nella sua crudele innocenza, nella sua feroce irrazionalità e nella sua esistenziale alterità» (Kemmerer, 2012).

I versi pronunciati da San Francesco sembrano legittimare questo Terzo Mondo pasoliniano come “alterità essenziale” capace di spingere l’uomo occidentale fuori dai sentieri abituali, distogliendolo “dal mondo” e dall’idea statica che questo ha della propria identità. Il modus vivendi di questo popolo, la vitalità frutto di un’inesauribile giovinezza e di una vita di stenti, sono segni che si oppongono al nostro mondo odierno, addomesticato e moderno, privo di questa forza originaria, di questo passato mitico che Kammener definisce: «[...] un passato che non è passato, ma che ogni giorno si rinnova. In parole povere: il Terzo Mondo non ricorda solo il nostro passato, ma lo è nel presente della società industriale» (Kammerer, 2012).

Descrizione: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/wp-content/uploads/2018/04/35-183x300.jpgL’immagine è quella di una forza che irradia oggi le popolazioni alle porte dell’Europa e dell’Occidente e si manifesta in diversi elementi sociali e spirituali tali da creare una dicotomia tra i due mondi, passando dal ritardo industriale e sociale fino alla fede ardente. Proprio la religione, senza distinzione precisa, che risiede nella coscienza dei nuovi arrivati, sembra anacronistica e   incompatibile con una visione occidentale del mondo. Pertanto, questa forza viene perpetuata da una gioventù senza altra risorsa che la speranza, in quanto priva di qualsiasi prospettiva d’avvenire, nei luoghi di provenienza dove c’è guerra o recessione.

L’aspetto teologico nell’opera pasoliniana si concretizza quindi nella concezione di una religione “motore”: venuta dal passato, le sue radici affondano nell’Oriente semitico, e porta in sé un fervore, una forza rivoluzionaria che spinge al cambiamento. Questo Terzo Mondo, contrariamente al mondo capitalista e borghese, rappresenta l’ultimo bastione del fervore religioso e dell’autenticità arcaica, conservando una nozione di “sacro”. Potremmo definirla une “religione del reale”, dalla concretezza indispensabile a questa stessa sacralità, seguita da una fede tale da ribaltare il mondo: «Dio è una specie di punto di Archimede, dal quale diventa possibile muovere il mondo. La leva della rivoluzione posa su questo punto» (Kammerer. 2012).Una forza inconcepibile per la società di consumo dove regnano individualismo e disprezzo dell’altro, dove spesso vivono uomini e donne migranti oppressi e traumatizzati dalle conseguenze della loro scelta vitale di migrare.

La capacità di adattamento e la vicinanza con la terra che possiedono questi popoli in arrivo sono elementi ormai scomparsi da questa parte del mare, che quindi obbediscono a leggi proprie e sfidano l’ordine tradizionale, morale e sociale stabilito:

«[...] dietro i loro Alì
                                               dagli Occhi Azzurri – usciranno da sotto la terra per rapinare –
                                           saliranno dal fondo del mare per uccidere, – scenderanno dall’alto del cielo
                    per espropriare – e per insegnare ai compagni operai la gioia della vita –
per insegnare ai borghesi
la gioia della libertà –
per insegnare ai cristiani
la gioia della morte
distruggeranno Roma
e sulle sue rovine
deporranno il germe
della Storia Antica» (Pasolini, 1976: 99).

Descrizione: 12facjubul-_sx334_bo1204203200_L’innovazione maggiore che accompagna questi popoli risiederebbe, secondo Pasolini, in due concetti, quello della libertà e quello della morte, essendo capaci di insegnare ai cristiani quella gioia della morte ormai spenta in essi e, al contempo, di mostrare ai borghesi il valore della libertà (anticonformismo). La figura di Alì resta emblematica in quanto rappresenta quell’antagonismo Sud/Nord del mondo, dove ciascuna delle parti ha la propria visione della vita e, tra esse, egli rappresenta la rivoluzione. Uno sbarco di esseri nuovi e antichi insieme, venuti per scardinare le vecchie convinzioni e ritrovare la libertà, allontanando l’uomo moderno dalla proprietà materiale («espropriare»), facendogli ritrovare quella pace («la gioia della morte») che risiedeva nel concetto religioso iniziale di morte, che abbraccia solo il corpo, lasciando all’anima una vita eterna, serena e immateriale.

Pasolini ha immaginato un tale sconvolgimento proprio quando nasceva la società di consumo: ciò ribadisce quella straordinaria capacità di lettura del suo tempo, ma anche degli eventi futuri, comprese le conseguenze della dottrina capitalista che si sta espandendo intorno a lui. In “Acculturazione e acculturazione”, inserito in Scritti corsari (1975), Pasolini evoca proprio gli effetti negativi scaturiti dalla nuova economia di consumo, esaminando la reazione degli individui di fronte a questa “scoperta”:

«Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione impone loro secondo le norme della Produzione creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria). Lo hanno accettato: ma sono davvero in grado di realizzarlo?» (Pasolini, 2009: 23).

Egli forse non immaginava che questo tipo di società sarebbe durato così a lungo, e che la sua previsione di arrivo dei popoli del Sud si sarebbe poi realizzata. Tuttavia, l’incontro tra i popoli non si farà con una reciproca ri-conoscenza: «i Calabresi […] da malandrini a malandrini» (Pasolini, 1976: 97) non riconosceranno i loro fratelli venuti dal mare, stipati in barconi di fortuna. Le motivazioni possono essere diverse, soprattutto economiche: il contesto sociale dei porti d’arrivo, al Sud, resta quello della disoccupazione e del lavoro nero, senza speranza d’avvenire, ragione che impedisce un incontro sereno di queste popolazioni e una contaminazione, che pur sempre avviene ma con più affanno.

Mentre le previsioni di Pasolini venivano confermate dagli eventi di decenni dopo, alla fine degli anni ’80 e gli anni ’90 alcuni scrittori osservano i cambiamenti in atto nel tessuto sociale. Erri De Luca è tra questi e, dal 1995, comincia a raccontare l’ondata migratoria che arriva in Italia e in Europa, proprio al Sud, dove la popolazione aveva già pagato l’inerzia dei politici e delle mafie, come testimonia il passaggio seguente da Pianoterra (1995):

«Nel mondo c’è più sud che nord. [...] Però è un fatto che l’Equatore, il largo parallelo equidistante dai poli, non è mai stato discrimine efficace. Il sud del mondo lo ha scavalcato di slancio, si è spinto oltre il tropico del cancro fino a risalire tutta l’Africa. Per ora si è assestato sulla sponda meridionale del Mediterraneo» (De Luca, 1995: 23)

De Luca, napoletano e migrante, parla della sua città d’origine e del Sud con la chiaroveggenza di colui che ha vissuto il distacco, e con lo sguardo critico di colui che lo ha subìto. Con sarcasmo egli racconta lo statuto perduto del Sud di cui faceva anch’egli parte:

«Un tempo, anche noi nati sotto il Volturno ci dicevamo del sud. […]. Fornivamo braccia a buon mercato alle Americhe, alle miniere, alle acciaierie. Vendevamo sale, lavoravamo da bambini e sul lungomare tiravamo reti lontane con corde grosse come braccia. Non avevamo petrolio, ma non ce lo facemmo mancare. Vennero navi lunghe e pesanti a raffinarlo sulle nostre spiagge. […]. Non dovevamo più partire verso l’inferno straniero, ora ce l’avevamo in casa. Eravamo ancora del sud e ci piaceva dirlo, scrivercelo addosso quando con quel nome di fabbrica passavamo nelle piazze d’Italia intorno a un palco. Eravamo la Questione Meridionale, […] » (De Luca, 1995: 23-24).

Descrizione: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/wp-content/uploads/2018/04/51-225x300.jpgDalla sua partenza da Napoli nel ’68 e durante i numerosi anni passati intorno al Mediterraneo, l’autore descrive una città mutata, dalla quale i Napoletani non partono più ma dove la situazione non sembra comunque rosea. I problemi occupazionali, le malversazioni finanziarie e politiche, l’immobilismo e le mafie rendono la situazione difficile.

Durante gli anni ’90 Erri De Luca intuisce la profonda trasformazione del Sud, divenuto lentamente terra d’accoglienza di nuovi individui venuti da un altro Sud. Il Sud dell’Europa perde quindi, a poco a poco, il suo statuto, lasciando tale funzione ai luoghi di partenza. De Luca parla di uno spostamento della frontiera, esito di una potente globalizzazione:

«Intanto le nostre città si popolano di un sud mobile. Le stazioni, le prigioni, i ponti, i sottopassaggi e i semafori ci mostrano a domicilio il sud. Noi non lo siamo più. Nominarci tali oggi è abuso di latitudine altrui e appropriamento di geografia indebita. [...] Noi dobbiamo dare le dimissioni da quel nome onorato. Ci resta il sud dell’anima [...]» (De Luca, 1995:24-25).

Il Sud mobile rappresenta il nuovo volto del Sud europeo. Gli scrittori prendono coscienza dell’epocale riassesto dello spazio sociale e cristallizzano nella scrittura il presente di coloro che lo stanno vivendo. Ai margini del mondo del lavoro, dell’istruzione, una moltitudine rincorre l’offerta lavoro da questa parte del mondo, vittima di una modernizzazione rapida e implacabile. La grande distanza ideologica formatasi tra le due rive sembra tale che ciascuna di esse vede l’altra come un obiettivo da raggiungere o un nemico dal quale proteggersi. Per di più, le difficoltà economiche partecipano a questo allontanamento, producendo una disumanizzazione dell’immagine dell’altro, situato a pochi passi, al di là del mare.

Franco Cassano, osservatore attento dello spazio mediterraneo, avvertiva in quegli anni il bisogno di un cambiamento di mentalità, riguardo al Sud e ai suoi rifugiati e migranti: il loro stato di transitorietà permanente ribadisce il problema del loro posizionamento all’interno di una già complessa politica economica globale, in Italia e altrove. Secondo Cassano è necessaria l’ascesa di «un sud che riprende a pensarsi autonomamente, che rifiuta l’imitazione passiva, tardiva e impossibile del nord, capovolge del tutto la rappresentazione dominante» (Cassano, 2007: IX).

De Luca abbraccia, dal punto di vista letterario e sentimentale, la stessa visione impegnata riguardo alle vicissitudini che rendono subalterno il Sud europeo e mediterraneo. Nei suoi romanzi l’autore racconta la migrazione e lo sconvolgimento legato ad essa, proiettata però verso l’attualità e i respingimenti alle frontiere, filtrata attraverso la propria esperienza di viaggiatore, nutrita da incontri, azioni umanitarie e contatti con l’alterità. In Solo andata (2005), raccolta di poesie, egli evoca le traversate dei migranti verso le coste europee, trasmettendo la propria indignazione e le loro inumane sofferenze. La raccolta comincia con una “Nota di geografia” che ne presenta chiaramente il contenuto:

«Le coste del Mediterraneo si dividono in due,
di partenza e di arrivo, però senza pareggio:
più spiagge e più notti d’imbarco, di quelle di sbarco,
toccano Italia meno vite, di quante salirono a bordo.
A sparigliare il conto la sventura, e noi, parte di essa.
Eppure l’Italia è una parola aperta, piena d’aria » (De Luca, 2005: 7).

Descrizione: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/wp-content/uploads/2018/04/6-232x300.jpgLa dicotomia è evidente e ribadisce, complice una globalizzazione destrutturante, la divisione del mondo in due blocchi, stavolta di partenza e di arrivo. La poesia “Sola andata”, racconto epico a più voci, racconta della divisione attraverso il “viaggio della speranza” di un gruppo di individui, cominciato a piedi, poi in barca, dall’Africa al Nord del Mediterraneo. Descrivendo una traversata, sia pur poeticamente, è intuibile che De Luca voglia dare visibilità ai migranti, materializzando in modo crudo, tanto le sofferenze e i disagi, quanto le ragioni che spingono all’esilio:

«Non fu il mare a raccoglierci,
noi raccogliemmo il mare a braccia aperte.
Calati da altopiani incendiati da guerre e non dal sole,
traversammo i deserti del Tropico del Cancro. […]
Dicono: siete sud. No, veniamo dal parallelo grande,
dall’equatore centro della terra.[…]
Molte vite distrutte hanno spianato il viaggio,
passi levati ad altri spingono i nostri in avanti. […]
Servitevi di noi, giacimento di vita da sfruttare,
pianta, metallo, mani, molto di più di una forza da lavoro.
Nostra patria è cenere fresca di vecchi e di animali,
è partita nel vento prima di noi, sarà arrivata già.
Non avete mai visto migrar patrie? Noi dell’Africa sì,
s’alzano con il fumo degli incendi, si spargono a concime» (De Luca, 2005: 11-25).

Le feroci condizioni della traversata sembrano di altri tempi, tuttavia, l’attualità odierna, più di dieci anni dopo la pubblicazione, non lascia spazio a dubbi: la situazione non è affatto cambiata, anzi, secondo Open Migration, solo dal 2010 i morti e i dispersi in mare sono più di 30 mila, senza nessuna vera politica globale di prevenzione in atto. La dimensione disumana della traversata, per i sopravvissuti, si conclude, nella poesia come nella realtà, con la detenzione in centri d’accoglienza, dove le condizioni sono spesso difficili. “Doganieri del nord” accolgono i migranti con guanti e mascherine alla bocca, quasi a volersi proteggere dalla morte che ha invaso gli spazi della barca e i suoi viaggiatori:

«Mani mi hanno afferrato, doganieri del nord,
guanti di plastica e maschera alla bocca.
Separano i morti dai vivi, ecco il raccolto del mare,
mille di noi rinchiusi in un posto da cento. […]
Sorvegliati da guardie, siamo colpevoli di viaggio,
c’è più spazio che in barca e porzioni d’acqua e niente fame. […]
Vogliono rimandarci, chiedono dove stavo prima,
quale posto lasciato alle spalle. […]
Rimetteteci sopra la barca, scacciateci da uomini,
non siamo bagagli da spedire e tu nord non sei degno di te stesso.
La nostra terra inghiottita non esiste sotto i piedi,
nostra patria è una barca, un guscio aperto.
Potete respingere, non riportare indietro
è cenere dispersa la partenza, noi siamo solo andata» (De Luca. 2005: 30-34)

Descrizione: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/wp-content/uploads/2018/04/71-177x300.jpgNon c’è ritorno possibile in questo Mediterraneo, né verso una patria ormai in cenere o ridotta alla barca del viaggio: la perdita, sulla quale egli si sofferma, diventa una condizione umana che coinvolge tutti i migranti, compreso forse l’autore stesso. L’immagine usata è quella di corpi trasformati in sabbia, che sublimano lentamente lungo il cammino, senza conservare intatta neppure la propria ombra. Questi individui contengono allora nei loro involucri il vuoto, come se, allontanandosi dalla terra d’origine, perdessero consistenza, ma fossero tenuti assieme dalla speranza di un porto migliore nel quale approdare:

                                                          «Se eravamo a terra in queste notti cantavamo
per le mandrie portate in altopiano. […]
Qui non si posa in terra l’ombra dei nostri corpi,
siamo polvere alzata, un odore di aceto in una fiasca vuota.
Siamo deserto che cammina, popolo di sabbia,
ferro nel sangue, calce negli occhi, un fodero di cuoio»(De Luca, 2005: 24)

Le parole e la poetica di De Luca posseggono una carica profetica equivalente a quella che abbiamo precedentemente cercato in Pasolini e il suo Alì. De Luca dà, tuttavia, la parola direttamente ai migranti per raccontare loro stessi e il futuro, in quanto, forse, egli li considera come i soli detentori di un vissuto estremo, in grado di far affiorare sulla pagina un così oscuro capitolo della nostra storia attuale:

«Non potete contarci, se contati aumentiamo
figli dell’orizzonte, che ci rovescia a sacco. […]
Nessuna polizia può farci prepotenza
più di quanto siamo già stati offesi.
Faremo i servi, i figli che non fate,
nostre vite saranno i vostri libri d’avventura. […]
Da qualunque distanza arriveremo, a milioni di passi
Quelli che vanno a piedi non possono essere fermati.
Dai nostri fianchi nasce il vostro nuovo mondo,
è nostra la rottura delle acque, la montata del latte. […]
Stringetevi nei panni, noi siamo il rosso e il nero della terra,
oltremare di sandali sfondati, lo scirocco» (De Luca, 2005: 35-36)

Nella “profezia” di De Luca non c’è la violenza pasoliniana da parte dei migranti, ma solo quella naturale che scaturisce da un corpo pronto a procreare, metafora di un passaggio, di una trasformazione. Quella di un popolo che si mescola ad un altro, che ne prende il posto come in un ciclo vitale, nelle attività umane più elementari («faremo i figli che non fate»), come in un nuovo inizio, fino a diventarne parte integrante.

Descrizione: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/wp-content/uploads/2018/04/81.jpgL’accettazione di una condizione di schiavitù, da parte dei migranti è, a differenza di Pasolini, il segno di un passaggio che si farà senza violenza, nonostante le sofferenze provate da questo nuovo popolo di fieri camminatori, nonostante il destino di subalternità che li aspetta: non si tratta di accettarlo con fatalità, ma di credere nella speranza di una continuità, di un’armonia, forse in un futuro meno incerto. Erri De Luca profetizza un Mediterraneo nuovo che si costruisce con la forza naturale di un vento, uno scirocco d’Africa che porta con sé un sapere antico nei piedi dei nuovi arrivati. Esso scavalca il presente e si pone come un futuro che bisognerà comprendere e accettare, in quanto non potrà essere respinto all’infinito, come oggi avviene, alle porte della fortezza Europa.

La visione profetica pasoliniana annuncia un cambiamento in tutto l’Occidente, che avrà come punto di partenza proprio quel Mediterraneo creatore di civiltà, dove avverrà una rivoluzione tanto tragica quanto radicale. Una parte di questa rivoluzione è stata forse già visibile all’interno della “Primavera araba”, segno di un processo di cambiamento iniziato da poco, un evento dal forte carattere ideologico e storico, ma del tutto ancora in divenire.

Il Sud del Mediterraneo, attraverso i suoi giovani, i suoi intellettuali, nonostante i morti da piangere nelle infinite traversate, non sembra più accontentarsi di vivere nella democrazia dettata dal Nord. Il Sud del Mediterraneo vuole accedere, a modo suo, ad una modernizzazione strutturale, nella quale le idee possano circolare per acquistare una consapevolezza, propria e indipendente, del proprio potenziale.

Gli ultimi versi della poesia, nella versione del testo in edizione bilingue italiano/francese (De Luca, 2012) presenta una caratteristica interessante, che partecipa all’aspetto profetico di cui abbiamo parlato. In effetti, gli ultimi due versi, tanto in italiano quanto in francese, sono stati sostituiti dai seguenti:

«Uno di noi a nome di tutti ha detto:
“Va bene, muoio, ma in tre giorni risuscito e ritorno” » (De Luca, 2012: 62).

De Luca apre ad una visione mistica che si allaccia direttamente alla figura di Cristo: quest’ultimo, entra a far parte della schiera dei migranti condividendone il destino tragico e diventando una sorta di portavoce di tutti coloro che hanno poi seguito i suoi passi. Se quest’ultimo accetta di morire in nome di tutti, prevede anche la propria risurrezione: la sua morte è allora intuibile come un segno di speranza, una promessa di salvezza, nel senso religioso, per coloro che perderanno la vita nelle traversate, inghiottiti dal mare.

Come nella “Profezia” di Pasolini, il migrante, «uno dei tanti figli dei figli» (Pasolini. 1976: 97), sembra riapparire nella figura di Cristo, «uno di noi» (De Luca, 2012: 62), abitante anch’egli di un Sud oppresso dalla guerra, che accetta di sacrificarsi in un gesto di speranza attraverso i millenni, già consapevole forse del futuro e del futuro modus operandi dell’Occidente, dinnanzi agli “altri” come lui.

Per completare la nostra analisi, ci sembra importante convocare lo scrittore e saggista Édouard Glissant, il quale si interessa alla relazione tra luogo e creazione poetica. Se il pensiero pasoliniano e quello di De Luca si incontrano qui, anche dopo anni di distanza, si crea ciò che proprio Glissant definiva un “lieu commun”:

«Pour moi les lieux communs ne sont pas des idées reçues, ce sont littéralement des lieux où une pensée du monde rencontre une pensée du monde. Il nous arrive d’écrire, d’énoncer ou de méditer une idée que nous retrouvons dans un journal italien ou brésilien, sous une autre forme, produite dans un contexte différent par quelqu’un avec qui nous n’avons rien à voir. […] C’est-à-dire, les lieux où une pensée du monde confirme une pensée du monde» (Glissant, 2007: 33).

Secondo Glissant, questo “pensiero comune” nasce intorno all’espressione poetica e letteraria, e si esprime attraverso ciò che egli chiama “chaos monde”, qundi una visione globale del mondo in cui si abita. Oggi, i media facilitano l’accesso alle culture “altre” creando ponti tra luoghi ed eventi: tuttavia, a distanza di decenni, le visioni “profetiche” di Pasolini e De Luca, oltre ad essere delle letture attente, dimostrano che la creazione letteraria non nasce in uno spazio astratto ma da un luogo caratterizzato da una spinta emotiva e sociologica tale da partecipare all’elaborazione comune di un pensiero. In questo caso il loro Mediterraneo e le sue coste sono “terra di profezie” e di letture future e presenti, spazio da decifrare in quanto in continua evoluzione. Uno spazio che cambia sotto i passi degli individui che lo percorrono (e che vi migrano) e che viene continuamente trasformato da questi ultimi, e dalle dinamiche geopolitiche e sociali ad essi legate.

A questo proposito, lo stesso Glissant torna sulla situazione attuale in cui i media hanno, secondo lui, ormai realizzato una visione totale del mondo, ma anche sul concetto di creazione a partire proprio da un luogo:

«Mais c’est seulement aujourd’hui que, la totalité-monde enfin réalisée concrètement et géographiquement, cette vision du monde, qui auparavant dans la littérature était prophétique, peut se déployer ou s’exercer en prenant pour objet véritablement ce qui n’était auparavant que sa visée. Quand je dis cela, je ne prétends pas projeter la littérature dans un espace de généralisation abstraite. Avoir une poétique de la totalité-monde c’est lier de manière rémissible le lieu, d’où une poétique ou une littérature est émise, à la totalité-monde et inversement. Autrement dit, la littérature ne se produit pas dans une suspension, ce n’est pas une suspension en l’air. Elle provient d’un lieu, il y a un lieu incontournable de l’émission littéraire, mais aujourd’hui l’œuvre convient d’autant mieux au lieu, qu’elle établit relation entre ce lieu et la totalité-monde» (Glissant, 2007:34).

Le parole di Glissant ribadiscono l’importanza della relazione tra luogo, scrittura e alterità. L’osservazione di Pasolini sul futuro dell’Occidente sono la prova del legame con il suo spazio di vita. Da un altro canto, De Luca legge e decifra il presente, attraverso uno spazio che gli serve da tela di fondo per legare gli eventi. Anch’egli profetizza un cambiamento radicale, un riequilibrio costruito dai migranti: entrambi gli scrittori raffigurano l’incontro dolce e cruento con “l’altro”, mettendo al centro della loro scrittura i migranti, come figura centrale del nostro tempo, che sia cristiana o politica, perché consapevoli che le migrazioni non si arrestano e che anzi siamo dinnanzi, come affermava Umberto Eco, «ad una nuova stagione afroeuropea» (Eco, 1999: 12).

Dialoghi Mediterranei, n.31, maggio 2018
Riferimenti  bibliografici
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Kammerer Peter,« Alì dagli occhi azzurri. Una profezia di Pier Paolo Pasolini », in Pagine corsare, vedere: http://pasolinipuntonet.blogspot.com/2012/11/ali-dagli-occhi-azzurri-una-profezia-di.html?q=peter.
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Sennet Richard, L’uomo flessibile, Mondadori, Milano 1999.
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Vittorio Valentino, in Francia dalla fine degli anni ’90, si è laureato con una tesi in Letteratura italiana sulla tematica del viaggio nella scrittura di Erri De Luca. Nel 2013 ha conseguito un dottorato di ricerca in lingue romanze, su “Letteratura della migrazione nel Mediterraneo dal 1950 ad oggi, legata alla francofonia e all’italofonia”. I suoi temi letterari di predilezione sono collegati al Sud, ai suoi migranti, scrittori e non, alla letteratura al femminile e al postcolonialismo. Ha dedicato particolare attenzione in diverse pubblicazioni su autori come De Luca, Lakhous, Scego o Abate. Nel 2014 ha ottenuto la qualifica alle funzioni di “Maître de conférences” dal CNU francese. Insegna attualmente letteratura all’università de La Manouba di Tunisi.

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Una panoramica sulla letteratura italiana della migrazione

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Marina Gersony

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9 Marzo 2019

Un lungo excursus sulla letteratura di autori stranieri, migranti e nuovi italiani per capire come si è evoluta la loro narrazione dagli anni Novanta ad oggi.

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Vengono dall’Africa, dai Paesi del Medio Oriente, dall’Europa dell’Est e dall’Asia e scrivono in italiano. Al contrario dei Paesi con un passato coloniale dove si sono già formate delle élite che parlano e scrivono nelle lingue dei colonizzatori (scrittori come Tahar Ben Jelloun, in Francia, o Hanif Kureishi, in Inghilterra), in Italia i cosiddetti migrant writers rappresentano un fenomeno che si è sviluppato intorno agli anni Novanta, all’indomani dei flussi migratori importanti. Ispirati dal bisogno di farsi ascoltare da un pubblico italiano, scrivono spesso testi autobiografici che parlano di violenza, razzismo, solitudine e integrazione impossibile. Soltanto quando si sentono più consolidati e inseriti nel tessuto sociale
—  che in genere avviene dopo il passaggio generazionale tra vecchi e nuovi immigrati, l’integrazione di quelli esistenti, la trasformazione del lavoro e i ricongiungimenti familiari —, iniziano ad esprimersi in senso pieno con opere sempre più tese a oltrepassare l’autobiografismo testimoniale e la denuncia della prima fase. 

Che la migrazione sia un topos letterario tra i più potenti non è certo una novità. Basti nominare due “sottotemi” dell’esperienza migratoria o dell’esilio —  il viaggio e la nostalgia —, per capire quanto essi abbiano nutrito le letterature. La storia abbonda di esempi di scrittori che decidono di lasciare il porto sicuro della propria Muttersprache per dare vita a capolavori linguistici ricchi di contaminazioni. Pensiamo a Samuel Beckett che a un certo punto dall’inglese emigra nel francese; o a Joseph Conrad, Vladimir Nabokove Arthur Koestler, rispettivamente passati dal polacco, russo e tedesco all’inglese; o pensiamo a Iosif Brodskij, ebreo russo nonché finissimo prosatore di lingua inglese dopo essere diventato il cittadino americano Joseph Brodsky. E ancora Milan Kundera, romanziere ceco naturalizzato francese assurto alla notorietà con L’insostenibile leggerezza dell’essereche negli anni Novanta ha sfidato se stesso scrivendo la sua prima opera narrativa in lingua francese (La lentezza, 1995).  

La chiamano letteratura migrante, della migrazione, multietnica, multiculturale, interculturale, della diaspora, ibrida, sincretica, creola o meticcia, ognuno cerca di dare una sua definizione. In realtà, al di là di ogni etichetta, sarebbe invisibile se non fosse per l’impegno di alcune associazioni (Eks&Tra), di piccole e medie case editrici o riviste che negli ultimi decenni hanno promosso la diffusione di testi e idee che non troverebbero spazio nell’editoria mainstream e nei media principali (El Ghibli, Terre di Mezzo, Edizioni dell’Arco, Nigrizia, Nazione Indiana). I primi libri dei nuovi autori che scrivono in italiano iniziano a farsi conoscere tramite la vendita on the road da parte di volonterosi librai nomadi, per lo più senegalesi, che guadagnano una percentuale su ogni copia venduta per pochi centesimi ai passanti.

Il resto viene distribuito in libreria, nei negozi di commercio equo e nei centri sociali. Pap Khouma è tra le figure più note in Italia che ha dato il via allo sdoganamento della letteratura migrante e a farla conoscere in una nuova prospettiva. Nato a Dakar nel 1957, naturalizzato italiano, si è stabilito a Milano nel 1984. Il suo primo libro Io, venditore di elefanti (Garzanti) firmato con Oreste Pivetta nel 1990, narra la difficoltà che egli stesso ha dovuto affrontare da venditore ambulante e da immigrato. Adottato da molte scuole come libro di testo, fa parte dei primi scritti in cui l’autore migrante, non ancora padrone della lingua italiana, si fa aiutare da giornalisti professionisti per la scrittura. Come Saidou Moussa Bache si è fatto affiancare da Alessandro Micheletti per scrivere La promessa di Hamadi (Editore De Agostini Scuola) o Mohamed Bouchaneche in collaborazione con Carla De Girolamoe Daniele Miccione, ha scritto Chiamatemi Alì (Editore Leonardo). Un tratto che accomuna gran parte di questa produzione letteraria è l’oralità, materia prima per forgiare racconti che si ispirano ai cantastorie (griot) venuti da lontano. Significativi, in questo senso, i testi dei senegalesi Mohamed Bae Mbacke Gadji.

Quando si parla di letteratura italiana della migrazione, non si può non citare Armando Gnisci, professore associato di Critica letteraria e Letterature comparate presso l’Università La Sapienza di Roma e fondatore della Banca dati degli scrittori immigrati in lingua italiana (Basili), nata nel 1997. «Oggi si chiama Basili&Limm, ossia Letteratura Italiana della Migrazione Mondiale —  scrive Gnisci sul suo sito ufficiale —  e conterrà anche i dati di quella che noi chiamiamo Nuova Generazione di scrittori,  vale a dire le opere della letteratura italiana contemporanea degli scrittori nati e/o scolarizzati in Italia da genitori immigrati e/o da coppie meticce. Queste persone scrivendo letteratura preparano il “nuovo mondo” e vanno formando l’attuale transculturazione europea».

La letteratura migrante nel nuovo millennio

Ma è con l’inizio del nuovo millennio che la letteratura migrante italiana – analoga a movimenti denominati Black Britain, nei paesi anglosassoni, e Littérature Beur, diventata poi Littérature de banlieue, Littérature urbaine, populairee “post-beur” in Francia — comincia a decollare sul serio. Gli editori italiani più autorevoli le riconoscono una dignità letteraria rendendosi conto del contributo che essa può dare alla letteratura italiana ampliandone l’immaginario e gli orizzonti. Il fenomeno lo analizza, tra gli altri, un saggio sulla nuova dimensione di in-betweenness dal titolo Ci siamo. Il futuro dell’immigrazione in Italia (Sperling & Kupfer, 2007, ormai fuori catalogo), scritto a quattro mani da Otto Bitjoka e dall’autrice di questo articolo. Sono gli anni in cui la Fiera del Libro di Torino inizia a dedicare una serie di eventi alla letteratura di una minoranza scritta nella lingua della maggioranza.

Fra di loro tanti i “nuovi italiani”, tra i quali anche le voci degli scrittori in esilio, costretti a scappare dal loro Paese per motivi politici o in seguito a conflitti. Poeti bilingue e ricchi di talento come Gëzim Hajdari, nato a Lushnje (Albania) nel 1957 in una famiglia di proprietari terrieri i cui beni sono stati confiscati durante la dittatura comunista di Enver Hoxha. Dal 1992 Hajdari vive come esule in Italia, dove scrive e traduce in albanese e in italiano. Ignorato in patria, da noi gli sono stati conferiti diversi riconoscimenti, tra cui il prestigioso Premio Montale per la poesia inedita.  

In questo contesto vale la pena  ricordare scrittori come Carmine Abate, italiano di origine arbëresh, figlio di emigranti e a sua volta con un passato di emigrazione in Germania. Le sue opere raccontano la migrazione degli albanesi, arrivati in Italia dopo la morte del mitico condottiero Skanderbeg, e trattano temi di migranti e incontri tra culture. Un’esperienza, quest’ultima, che ha lasciato, a torto, poche tracce nella letteratura italiana. Eppure esiste una vasta produzione di letteratura dell’immigrazione nella nostra lingua, o prodotta da scrittori di origine italiana come John Fante che meriterebbe di essere recuperata e studiata, se non altro come occasione per approfondire la storia del passato migratorio del nostro Paese; una storia anche dolorosa e per molti aspetti non diversa da quella dei tanti immigrati di oggi. Pensiamo al caso di Yousif Jaralla, di origine irachena, che intreccia tradizione mediorientale e siciliana, creando un linguaggio modellato su quello della narrazione orale sufi; o di Tahar Lamri, scrittore di punta algerino e ravennate di adozione, che mescola dialetti della pianura padana con il linguaggio dei meddha, i cantastorie, maghrebini. Sono gli anni in cui si fanno notare autori naturalizzati italiani come l’iracheno Younis Tawfik, l’antropologo e giornalista algerino Amara Lakhouso Mihai Mircea Butcovan, scrittore e poeta romeno nato a Oradea nel 1969 e approdato in Italia nel 1991 dopo la fine ingloriosa di Ceausescu. Nel suo libro Allunaggio di un immigrato innamorato(Besa Editrice), descrive senza peli sulla lingua vizi e virtù di italiani e romeni. Ma la chicca è la storia (vera) del protagonista, che dalla Romania emigra a Milano e si innamora della bella Daisy, leghista militante nonché figlia devota di una ricca famiglia brianzola con tutto quello che ne consegue. E ancora autori come Kossi Komla-Ebri, nato in Togo nel 1954 e naturalizzato italiano. Dopo aver conseguito la maturità in Francia, una laurea in Medicina e Chirurgia a Bologna e una specializzazione in Chirurgia Generale all’Università degli Studi di Milano, il dottore ha faticato non poco prima di poter esercitare la professione nel Belpaese: dieci anni di attesa del riconoscimento della cittadinanza italiana e altrettanti per iscriversi all’albo dei medici. Un percorso pieno di ostacoli che Komla-Ebri ha descritto in una serie di aneddoti raccolti in due volumi (Imbarazzismi, Coedizione con Edizioni dell’Arco). Non a caso è diventato il più lombardo e conosciuto tra i nuovi autori africani, abilissimo nell’usare l’umorismo per sdrammatizzare. Un esempio? «Un giorno Charles, un mio amico togolese, sposato con una ragazza italiana, portava a passeggio i suoi due figli piccoli. Incrociarono due signore anziane. Una di loro, mossa da amorevole compassione, mormorò: “Oh, por diavül, ga tucà fa ül baby-sitter!”».

E come non citare Santino Spinelli, in arte Alexian, nato a Pietrasanta nel 1964. Musicista, compositore, poeta, scrittore, è stato tra l’altro docente di Lingua e Cultura Romanì nonché collaboratore del Centro di ricerche zingari della Sorbona di Parigi. Spinelli ripercorre il viaggio del popolo rom al quale orgogliosamente appartiene, recuperando espressioni musicali della tradizione romanì in una prospettiva di cultura cosmopolita e transnazionale. La sua poesia Auschwitz fa da ornamento a Berlino, nei pressi del Bundestag, al monumento dedicato alla memoria del genocidio di Sinti e Rom durante il nazismo, inaugurato il 24 ottobre 2012 alla presenza del capo di Stato tedesco e di Angela Merkel (Faccia incavata / Occhi oscurati / Labbra fredde / Silenzio / Cuore strappato / Senza fiato / Senza parole / Nessun pianto).

I convegni, i concorsi e Pecore Nere

Moltissime anche le donne straniere che scrivono in italiano spaziando attraverso tutti i linguaggi letterari senza vincoli da limiti di genere. Scrittrici e intellettuali come l’albanese Ornela Vorpsi (ora risiede a Parigi), la capoverdiana Jesus Maria de Lourdes, la greca Helene Paraskeva, la slovacca Jamila Ockayovà, la giornalista e regista polacca Magdalena Szymków (ora vive in Olanda) o la brasiliana Christiana De Caldas Brito. Quest’ultima ha visto lontano già una quindicina di anni fa: «Sarebbe bello se accanto alla “new economy” ci fosse uno spazio per la “saudade”; che le “favelas” e i “meninos de rua” potessero essere compresi dagli italiani nella stessa misura in cui oggi capiamo “file” o “link”. Se accettiamo “cliccare” o “chattare”, perché opporre resistenza ai neologismi della letteratura della migrazione?» (Dichiarazione tratta dal primo Convegno Nazionale Culture e letteratura della migrazione, Ferrara 2002).

Intanto nel 2005 nasce il Concorso letterario nazionale Lingua Madre, ideato dalla giornalista e saggista Daniela Finocchi, con l’approvazione e il sostegno della Regione Piemonte e del Salone Internazionale del Libro di Torino. Sono gli anni in cui si impongono giovani autrici piene di passione e di slancio. Un esempio fra tutti è l’antologia Pecore Nere a cura di Emanuele Coen e Flavia Capitani, pubblicato da Laterza. Uscito nel 2006, raccoglie le testimonianze di Laila Wadia (nata a Bombay da genitori indiani, trasferita in Italia nel 1986); Gabriella Kuruvilla (nata a Milano da madre milanese e da padre indiano); Ingy Mubiayi (nata al Cairo da madre egiziana e padre zairese) e Igiaba Scego (nata in Italia da genitori somali). «Era il primo libro del genere scritto sul tema nel nostro Paese e infatti all’epoca i giornalisti non sapevano bene come trattarci —  osservava Igiaba Scego in un articolo apparso su Internazionale (21 gennaio 2015).

Non si capacitavano di quelle quattro “straniere” che parlavano così bene l’italiano e sapevano tante cose sull’Italia. Quando noi spiegavamo che eravamo di fatto italiane, nate e cresciute a Roma, Milano o Trieste, loro ci guardavano dubbiosi. Possibile? Italiane? Voi? Ma siete troppo marroni! All’epoca non era nemmeno entrata nell’uso la formuletta magica “seconda generazione” che un po’ spiegava delle cose, anche se non in modo ottimale. Eravamo di fatto, per chi ci doveva raccontare, delle aliene». Nel frattempo Igiaba ha vinto nel 2011 il Premio Mondello come autrice italiana con La mia casa è dove sono (Rizzoli, 2010).

Negli ultimi anni, tuttavia, dopo un periodo di meritata notorietà, la letteratura migrante in Italia sembra attraversare un momento di stallo. I flussi migratori, gli scambi turistici, commerciali, di soggiorno, di studio e la globalizzazione delle aziende, danno per scontata la fusione di tradizioni, lingue e culture. Cambiano le mode e cambiano le etichette, questo tipo di letteratura fa meno notizia e si confonde con quella che qualcuno già chiama global novel. Senza contare i “nomadi virtuali”, quelli che navigano nell’oceano della rete e costruiscono nuove communities without propinquity, ossia comunità senza vicinanza. In questa società liquida, per parafrasare Zygmunt Bauman, anche gli scrittori non sembrano sentirsi più a casa da nessuna parte: da un lato c’è il desiderio legittimo di conservare la propria identità locale o nazionale, dall’altro l’adesione a una realtà globale è inevitabile.

Dal globish all’europanto

Sul piano linguistico, questi intrecci culturali hanno già prodotto un mescolamento di carte continuo tra linguaggi codificati e deviazioni dalla norma. Le interferenze linguistiche, le ambiguità semantiche, perfino l’intraducibilità, che a volte si manifestano nel passaggio da una lingua all’altra, possono dare origine a percorsi inaspettati, talora divergenti (e divertenti) e condurre a soluzioni e prospettive insolite, a modi diversi di leggere la realtà: viene in mente Salman Rushdie che inserisce parole di sua invenzione, una fra tutte, chutnification, una commistione tra il nome di un piatto indiano (chutneychatni) e un suffisso inglese. Con orrore dei puristi della lingua italiana (e non solo loro), oggi anche nello Stivale si parla e si scrive globish, un inglese corrotto e ridotto ai minimi termini, impastato di Internet, emoticons, pubblicità, musica e fumetti, usato più o meno correntemente da circa due terzi della popolazione terrestre. Dal globish derivano direttamente il franglais (francese-inglese); il japlish (giapponese-inglese), lo spanglish (spagnolo-inglese) e così via. Senza contare i nuovi (e improbabili) termini letterari che circolano in rete, tra cui il portulano, un miscuglio di portoghese e italiano oppure l’itaniolo che mescola spagnolo e italiano. Dulcis in fundo, non possiamo non citare l’europanto, la lingua artificiale creata nel 1996 da Diego Marani, un traduttore del Consiglio dei Ministri Europeo di Bruxelles. Definita dal suo stesso creatore uno scherzo linguistico, è un ibrido di termini presi da molte lingue europee. In breve, to speakare europanto, tu basta mixare alles wat tu know in extranges linguas: un 42 per cento di inglese, un 38 per cento di francese, un 15 per cento misto delle altre lingue europee, un 5 per cento di fantasia e il gioco è fatto. Marani ha scritto alcuni articoli su questa lingua ed ha pubblicato una serie di racconti umoristici molto divertenti (Las adventures des inspector Cabillot). 

A questo punto cercare di definire o circoscrivere la letteratura in generale
—  da qualsiasi parte del mondo essa provenga —  diventa un esercizio assai complesso che rischia come minimo l’incompletezza. La Babele del terzo millennio la dice comunque lunga sul grado di contaminazione non solo della nostra, ma di tutte le lingue, letterature e culture del pianeta, nessuna esclusa, che le rende irrimediabilmente mutevoli, nomadi, ibride e meticce.

Articolo pubblicato per gentile concessione di PreText. Libri&Periodici, del loro passato e del loro futuro