martedì 15 marzo 2022

 

Cercando un’altra vita. Storie di profughi al confine

La grande fuga. Alla frontiera tra Romania e Ucraina il racconto di chi fugge e di chi lo aiuta

Al confine con la Romania
 

Al confine con la Romania

C’è un vociare isterico che riempie l’aria, e una viscida pioggia che si attacca ai vestiti. Ci sono le camere che avvinghiano i primi piani sfigurati dal dolore, i giornalisti che si spartiscono i reduci dal fronte, le parole di circostanza distillate in sequenza. Dietro chi porta fogli, documenti, pane, acqua, e delle coperte per proteggersi dal freddo. Al confine di un guerra raccogli i pezzi di ciò che arriva: una fuga racchiusa in una busta di plastica, uno smarrimento a cui non sai dare risposta, la rabbia nascosta. Quello che resta delle persone, e gli incubi che incontri nei loro sguardi. Non senti il suono delle sirene, quello del fuoco che squarcia un palazzo, né dei passi che corrono sotto un bunker per ripararsi da un attacco e le grida susseguirsi. La sensazione è quella di assistere ad una rincorsa alla tragedia provvisoria, di scorrere immagini conosciute e parole inconsistenti. Ma non c’è niente che puoi raccontare qui, perché non c’è nulla che non sia già stato scritto.

Pioviggina ad Oradea, spira un vento gelido che oscura i profumi primaverili stagionali. Kateryna si avvicina mentre compilo i dati alla reception, avvolta da un corpo gracile e accompagnata da un passo tremolante. Viene dall’Ucraina, mi dicono dal bancone, “la ospitiamo qui da ieri”. È arrivata a notte fonda insieme a Margarita, la figlia, e un danese dalle orecchie grandi. Kiev è un ricordo lontano, sussurra a voce bassa, forse la prossima destinazione è il Portogallo, forse la Francia. Margarita non è contenta, non vuole partire, ma con le bombe sopra casa non è possibile tornare indietro, e si deve andare avanti, anche con un figlio di diciannove anni bloccato dall’altra parte del confine. A cena i piatti vengono lasciati raffreddare mentre si parla della partenza del giorno dopo: Mircea guiderà fino Târgu Mureș, e poi da lì si deciderà il da farsi. Adriana mastica un po’ di inglese mentre si assicura che i documenti siano in regola, Florin sta al telefono e organizza i nuovi ingressi in hotel: entrambi lavorano come dipendenti nella struttura, ma in questi giorni stanno facendo molto di più per accogliere tutte le persone che arrivano, arrangiare i loro spostamenti, e garantirgli un pasto caldo ed una camera pulita.

Mentre parliamo arriva un’altra famiglia: sono in cinque, tre bambini, il padre e la madre. Mykola è riuscito a passare perché ha tre figli, ma da Odessa non è stato facile spostarsi. “Eravamo in Crimea l’ultima volta che sono arrivati, siamo fuggiti ancora”. Cosa ci propongono questi russi, mi chiede Mykola mentre stropiccia i bordi della tovaglia. “La Russia esiste da trecento anni, cosa rappresenta?”. Tre giorni dalla Moldavia per arrivare in Romania, per il Portogallo ne serviranno altrettanti. “Abbiamo chi ci ospita, poi si vedrà”.

All’alba incontro Kateryna. Prima di partire vuole darmi il numero di alcuni cugini vicino Parigi: mi chiede delle persone, se la lingua è difficile, dei monumenti da visitare. Si stringe nei suoi occhi affossati, scuri, mentre mi abbraccia. “Non so se è la scelta giusta da fare”, ma è l’unica possibile per ora. Per arrivare a Sighet, il confine romeno che costeggia l’Ucraina, prendo un microbuz da Oradea verso Baia Mare, dove mi aspetta Oana Gonczi, dei Vigili del Fuoco, che coordina insieme alla polizia, l’ufficio immigrazione, le autorità locali e di frontiera, tutte le attività al confine. “Abbiamo allestito il campo mobile vicino la nostra stazione. Ci sono sedici tende e otto letti, possiamo ospitare fino a venti persone”. E poi ci sono i mezzi a disposizione per trasportare chi arriva nei punti indicati, o nel campo stesso quando tutte le strutture nelle vicinanze sono piene. Le persone passano la linea di confine un po’ alla volta, alternandosi con le macchine, in un misto tra confusione, stanchezza ed apatia: vengono accompagnate sotto il tendone allestito qualche giorno prima dall’Unhcr per registrarsi, segnalare dove vogliono andare, da chi, o se vogliono fermarsi nel Paese.

Ma la Romania è un luogo di passaggio, e allora si cercano autobus verso la Germania, l’Italia, la Polonia, treni per la Spagna, e qualcosa per la Slovacchia. Alla frontiera Iulia Stan, capo della polizia, mi spiega che molti di quelli che la attraversano non chiedono lo status di rifugiato sociale, anche se hanno predisposto i documenti per farlo. Nella folla incroci di tutto: occhi chiari, scuri, cani e gatti, anziani, bambini, soprattutto donne. Verrebbe da chiedere loro qualcosa, ma a primo impatto si ha la sensazione che ogni domanda risulti più stupida che fastidiosa. Si avvicina Max per chiedermi delle informazioni, e iniziamo a chiacchierare riparati al caldo. “Vivo a Kiev. Non dirò che abitavo Kiev, non ancora”.

Via da lì a piedi sotto la neve, poi con la macchina, poi di nuovo a piedi. Parla un inglese perfetto, e mi rivela d’essere un interprete, ma di non aver mai visitato Londra. “Potrebbe essere il momento”, ma la sua famiglia è ancora bloccata tra la macerie della capitale. Ogni mezz’ora circa si affaccia qualcuno urlando il nome di una città, parte qualcosa, e gli interessati si precipitano fuori. La maggior parte dei presenti sono volontari, molti mettono di tasca propria i soldi per la benzina ed i trasporti, ma tanti altri se ne raccolgono dalla beneficienza delle persone. Quando la sera precipita sull’orizzonte ci si dà il cambio, qualcuno va verso casa, altri rimangono, i rifugiati non smettono di arrivare. Inizia a nevicare.

Ogni struttura in città ha messo a disposizione le proprie camere per i profughi, così come i cittadini, ed è difficile trovare un posto dove fermarsi. Fuori dalla stanza si sente abbaiare, e qualcuno accennare un rimprovero: una nuova famiglia è arrivata da Kharson, sono in tre più il cane. Provo ad avvicinarmi a questa a colazione, ad un’altra nel giardino, ma nessuno vuole parlare, né accennare ad un dialogo. “Hanno tutti paura qui, non si fidano. Difficilmente troverai qualcuno disposto ad aiutarti”. Florentina lavora nella casa famiglia Alexandru Ivasiuc, dove si occupa di pazienti con grave disturbo mentale, che ora accoglie anche le famiglie ucraine. Mentre divide la terapia per ciascuno degli ospiti mi spiega che il suo compito è quello di mettere in contatto chi arriva con quelli che offrono la disponibilità ad ospitare, “di assicurarmi che queste persone stiano bene, capire se hanno bisogno di aiuto e vedere di quale necessitano”, quindi organizzare trasporti e partenze nei vari paesi. “Praticamente sono tutto il giorno al telefono”, sussurra mentre chiude l’ennesima chiamata. Poi c’è il giro dei vaccini, il turno di notte, le varie visite in ospedale – “non si trova più una bambina, non so se stanotte dovrò andare a recuperarla dall’altra parte del confine” -, e partiamo in macchina per andare nel reparto di chirurgia, dove un ragazzo del Turkmenistan è ricoverato da circa una settimana. Viene da Kiev, anche lui: mentre scappa viene ferito da un colpo alla gamba ed uno al braccio, ma “i miei genitori non sanno che sono qui, non scrivere il mio nome”, mi dice.

Parliamo a fatica con un traduttore simultaneo mentre fuori il cielo ricomincia a buttare altra neve: ha 24 anni, i suoi amici sono in una casa qui vicino, il suo lavoro da tassista ormai lontano. Ricorda di aver avuto paura quando ha sentito il dolore penetrargli il corpo, schiacciarlo mentre fuggiva e invaderlo nel mentire ai genitori. “Penso che rimarrò per un po’ qui in Romania, non posso tornare indietro”. Florentina mi passa qualche numero da chiamare prima di scomparire nuovamente dentro il reparto, mi dice di fare attenzione, e che non ha importanza far sapere come lei si chiami, perché sta solo facendo il suo lavoro. Da una settimana dorme due, tre ore a notte, vede a malapena la famiglia, mangia quando il telefono non squilla: non può permettersi altro. Vasile Vlashin fa lo stesso. Lo vedi correre da una parte all’altra della frontiera con il telefono in mano, passando dall’inglese al romeno, fino ad arrampicarsi su qualche parola italiana.

La sua attività è coordinare i trasporti che partono dalla dogana verso tutte le destinazioni richieste: allora è necessario trovare gli autobus, i furgoni, gli autisti, le persone sparse in città negli alloggi, e far arrivare tutti nello stesso punto e alla stessa ora. Mentre sorpassiamo le montagne che segnano il confine con l’Ucraina, Vasile mi racconta dei problemi che stanno riscontrando con le autorità ungheresi alla frontiera. “Fanno di tutto per ostacolare il passaggio dei rifugiati”. Due giorni prima uno dei loro autobus viene bloccato alla dogana, la polizia se ne va, e non rimane nessuno ai controlli: “Sono tornati la mattina chiedendo i test covid, ma in pochi avevano il certificato verde”. Non gli chiedono il passaporto, né i documenti. “Hanno aspettato due ore, e con una seconda macchina della polizia si sono spostati di 30 km, a Kisvárda, dove una signora di sessantadue anni è morta”.

La strategia pubblica annunciata è quella dell’accoglienza, ma alla frontiera ungherese non funziona così. Vasile mi chiede quale sia il senso della burocrazia, del tempo, di tutto questo. “Te ne dico un’altra: non abbiamo abbastanza soldi per pagare il carburante. Le autorità romene hanno assicurato fondi per i rifugiati, ma ci servono ora, e ne avevamo bisogno già ieri. Non possiamo aspettare, dobbiamo trovare una soluzione per tutti. Dove sono questi soldi?”. Non lo so.

Anche le comunità e le associazioni religiose della zona si attivano subito. Arriviamo al Monastero di Petrova che sono le otto e mezza del mattino, su una strada ancora semi gelata con qualche randagio addormentato ai lati. “Putinpeace” è un progetto nato da un gruppo di artisti di Milano, cui scopo è raccogliere fondi per l’Ucraina vendendo opere di vario genere. Ci incontriamo alla frontiera, una storia tra Lambrate e Centrale tira l’altra, e partiamo insieme. Il Monastero è un punto in mezzo al bianco, nel silenzio: ci sono una decina di camere disponibili all’interno, con circa sei, sette persone dentro per ognuna, perché si cerca di accogliere tutti e in ogni modo. “Possono dormire una, due, tre, quante notti vogliono.

Restano quanto credono”, mi dice padre Agaton Oprișan, avvolto in un grosso vestito nero sollecitato dal vento. Saranno una quarantina gli ospiti presenti ora, molti dei quali senza una destinazione, poiché non tutti hanno appoggi in altri paesi. Padre Agaton lo vedi al confine che sbraccia da sinistra a destra: ogni giorno da Petrova scendono in quattro, attraversano la neve, e vengono ad organizzare i nuovi ingressi in struttura, così come le uscite. Arriva la colazione e vediamo le famiglie sedersi a tavola un po’ alla volta, qualcuno ha gli occhi ancora assonnati, altri ci osservano curiosi. La voce di Agaton rimbomba per tutta la sala quando ci presenta, ed ancora una volta le storie di mischiano, nonostante la diffidenza. Umberto Cofini, del collettivo, riconosce Miroslav, un ragazzo di sedici anni che il giorno prima ha passato la frontiera insieme alla madre Lilia e la sorella Maria. Sono seduti su delle panche al sole e sussurrano, guardano l’orizzonte, perché è l’unico punto sicuro che hanno di fronte: la casa è forse distrutta, non hanno una meta, un padre al fianco e dei soldi su cui contare.

Umberto si muove, gesticola, chiama, e Francesco Perruzzo, che lo accompagna insieme a Fabrizio Spucches, lo nota. “Emergency dice che possono prendersi carico di loro, partiamo domani con la macchina. Li porto con me”. Incappiamo nei documenti, in chiamate discordanti, nella Farnesina che non ci assicura che col confine ungherese ci facciano storie – “Signorina, io penso che non ci siano problemi. Ma se ce ne fossero?”. Emergency richiama Umberto, “non assicuriamo di poter prendere a carico i tre”, e senza la certezza di un tetto sopra la testa non si può partire. Blateriamo in italiano, in inglese, di benzina, di cosa fare, e ci prendiamo del tempo per riflettere. Poi arriva il via libera da Milano. Umberto torna a prendere i tre nel primo pomeriggio, paga l’hotel, li rassicura con un soffio di nervosismo: “Alle sei di domani partiamo”.

Chiudo le ultime chiamate del giorno, Seriozha Ruscovan passa da me alle ventitré scusandosi, è rimasto bloccato alla dogana per due ore. Si occupa di trasportare medicinali e cibo in Ucraina con circa tre viaggi alla settimana, avanti e indietro da Cluj-Napoca: mi racconta che il giorno dopo organizzerà una nuova spedizione con dei materiali oncologici per la clinica di Chernivtsy, l’unica ancora attiva nel paese. Ma manca l’energia, e deve trovare dei generatori al più presto, perché ci sono anche altre emergenze. “Non ti devo portar cose di cui non hai bisogno, ma quello che ti serve. Quindi mi devi dire quello che ti devo cercare”, conclude deciso, ricordando la prima conversazione avuta appena due settimane prima con il il direttore generale dell’Ivano-Frankivsk National Medical University. Lavora a livello locale: con la sua associazione ed il supporto dei Vigili del Fuoco elaborano un nuovo progetto, un call center dedicato solo all’emergenza Ucraina, in modo da velocizzare tutte le procedure, dal trovare una casa o un passaggio per spostarsi.

Seriozha è arrivato con Artem e Olga, due rifugiati che ha trovato sulla strada di ritorno e che per la notte ospiterà a casa sua. Gli occhi del bambino si chiudono mentre la nonna mi racconta, in un inglese stridente, che i genitori sono rimasti al fronte, e l’unica scelta era allontanarsi dal rumore delle bombe. Un suono così forte che quando Olga lo dice si tappa ancora le orecchie con le mani. Prima di salutarmi mi chiedono dove sarò i prossimi giorni, cosa farò, se ho già un posto dove stare. Me lo chiede ogni persona che incontro se ho un letto per dormire, come se il problema della casa fosse il mio. Realizzo concretamente quanto sia rassicurante avere un tetto che ti ripara dalla voce delle sirene, dal vento che ti strappa la pelle, dal rumore della guerra che si posa sulla neve. Così quando vedo avvicinarsi Miroslav, Lilia e Maria, penso a quanto possa essere assurdo trovarsi un ragazzo di ventotto anni che ti carica sulla sua macchina, ti stringe le spalle e ti dice che farà di tutto per portarti a casa. Non la tua, ma quella che può darti con i suoi mezzi. È ancora notte fonda, l’aria sembra quella di dicembre: c’è un giorno di viaggio, meglio non perdere tempo. La macchina si allontana, del fumo lascia una scia provvisoria. Sparisce. 

lunedì 14 marzo 2022

Il potere di contagio della guerra e la verità della memoria

Opinioni. Stiamo con gli aggrediti e i più deboli. Per ridurre le sofferenze dei civili e per la fine del conflitto. Mandare armi dove ce ne sono già troppe non serve né all’uno né all’altro scopo

Incisione, testa di Medusa. 1875

Incisione, testa di Medusa. 1875

La guerra contiene in sé l’infinita potenza del negativo. Con un altrettanto infinito potere di contagio. Dovremmo saperlo, ma lo dimentichiamo sempre: non si limita a distruggere vite e mondi. Corrompe e contamina occupando le menti e le anime con la propria logica perversa. Ha le caratteristiche che Gustav Jung attribuiva all’archetipo germanico di Wotan – il Capo della caccia e l’Ospite Furioso che irrompe della casa dell’Io e lo stravolge -, definendo “questo fenomeno generale come Ergriffenheit, uno stato di rapimento o possessione”. Resisterle è difficile.

Forse solo chi l’ha conosciuta davvero, ne ha provato l’orrore “col corpo” – chi ha visto il volto di Medusa, direbbe Primo Levi -, riesce a sottrarsi fino in fondo alla cattura (a non lasciarsi “pietrificare dentro”). Probabilmente per questo, nel frastuono mediatico in cui siamo precipitati dal 24 di febbraio, con l’aggressione russa all’Ucraina, i pochi capaci di parlarne con un barlume di “coscienza di causa” sono quei militari (penso al generale Fabio Mini, ad esempio) che sono stati effettivamente in uno “scacchiere di guerra” a differenza di troppi professionisti dell’informazione o della politica.

Personalmente questa lezione l’ho dovuta imparare da mio padre Nuto, che l’essenza della guerra dovette “viverla” nel punto più terribile della ritirata di Russia, nel gennaio del ’43, nella piana di Nicolaevka, in quella che chiamerà la “notte dei pazzi”, quando – scriverà – “capì tutto”: la vergogna del fascismo, lo sfacelo dell’esercito, il tradimento del Re, la lontananza di una patria indifferente e corrotta, guidata dai retori dell’”armiamoci e partite”. Soprattutto l’orrore irredimibile della Guerra.

La verità indicibile che gli avevano rivelato i suoi alpini, montanari costretti a diventare soldati, e cioè che in guerra, in ogni guerra, è sempre la povera gente a pagare il prezzo più caro. Sono loro, e non quelli che le guerre le decidono e le comandano (o magari anche solo le commentano), a subirne sofferenze e conseguenze.

Scrivo questo perché quella memoria famigliare sepolta nella mia infanzia col suo carico di tragedia mai veramente superata, mi è ritornata fuori d’improvviso all’esplodere di questa nuova guerra, combattuta negli stessi luoghi di quella di allora, con gli stessi nomi che ritornano. Un’emozione nuova su un materiale emotivo vecchio, una lacerazione in più rispetto a quelle che la cronaca quotidiana infligge a tutti oggi. E mi chiedo come far tesoro della lezione di allora per affrontare i dilemmi di oggi. Come tentare quantomeno di evitare che gli errori e le sofferenze di allora si sommino con (gli stessi?) errori e sicuramente le stesse sofferenze di oggi.

Credo che il primo pensiero, per chi intenda resistere alla possessione di Wotan, sia l’obbligo morale, civile e politico di fare il possibile (e anche l’impossibile) per impedire che la guerra scoppi (e su questo interroghiamoci se davvero Europa e Occidente sono innocenti). Ma soprattutto, e a maggior ragione, una volta sciaguratamente scoppiata, per impedire che si estenda e incrudelisca.

Non si tratta qui di decidere “da che parte stare” tra aggrediti e aggressori, tra più deboli e più forti: si sta con gli aggrediti e i più deboli, con buona pace dei manifestanti fiorentini che denunciano il pacifismo “equidistante”. Ma di scegliere, consapevolmente, “come stare”. Con quali forme e quali mezzi, al fine di ridurre al minimo le sofferenze della popolazione e di avvicinare il più possibile la conclusione del conflitto. Mandare armi là dove ce ne sono già troppe (e ne vediamo purtroppo i tragici effetti) non serve né all’uno né all’altro scopo.

Significa gettare benzina su un fuoco che occorrerebbe invece spegnere prima possibile; alzare un livello di scontro che ci si dovrebbe sforzare di abbassare. Rischiare di allargare i confini di un conflitto che si dovrebbe invece limitare, finendo per coinvolgervi gli stessi che dovrebbero svolgere il ruolo di mediatori. Confondere un’onorevole mediazione con la “perdita dell’onore” è pessima retorica, foriera di rovine.

Ha ragione Donatella Di Cesare quando ci invita a scegliere se vogliamo “aiutare il popolo ucraino aggredito” o “fare la guerra a Putin”, perché le due cose sono in contraddizione. La seconda opzione (combattere contro un nemico usando, peraltro, i corpi degli altri) significa, come è stato ferocemente detto “rendere lo scontro sempre più sanguinoso” fino al rischio estremo. La prima implicherebbe compiere ogni possibile sforzo per favorire un negoziato accettabile per entrambe le parti in una prospettiva di pace onorevole. Personalmente non ho dubbi.

Infine un’ultima implorazione: per favore non si usi il paragone con i “partigiani” per sostenere la linea dell’”armiamoli a casa loro”, fuori luogo e fuori contesto come ha ben messo in chiaro Alessandro Portelli su queste pagine, utile solo a sopire i sensi di colpa per la propria passata e presente impotenza.

Allora, purtroppo, la guerra mondiale era da tempo scoppiata, la lotta partigiana appariva una scelta difficile ma non disperata, e soprattutto il grosso degli armamenti proveniva dallo scioglimento del regio esercito o veniva conquistato con colpi di mano. L’uso propagandistico della storia, giocato sulla cancellazione delle specificità di contesto e sull’eticizzazione simbolica di fatti tra loro diversi ricondotti a un unico, semplificato, effetto emotivo,

 

sabato 12 marzo 2022

DAVID TEURTRIE Ricercatore associato presso l’Istituto nazionale di lingue e civiltà orientali (Inalco), autore di Russie. Le retour de la puissance, Armand Colin, Malakoff, 2021.

Il rumore degli stivali alle porte dell’Europa ha gettato nel panico le cancellerie occidentali. Per tentare di ottenere garanzie in merito alla protezione della propria integrità territoriale, la Russia ha presentato agli statunitensi due progetti di trattato volti a riformare la gestione della sicurezza in Europa, al contempo ammassando truppe al confine ucraino. Mosca chiede un congelamento formale dell’espansione dell’Organizzazione del trattato dell’Atlantico del nord (Nato) verso est, il ritiro delle truppe occidentali dai paesi dell’Europa orientale e il rimpatrio delle armi nucleari statunitensi schierate in Europa. Non potendo essere soddisfatte così come sono, queste richieste in forma di ultimatum rendono la minaccia di un intervento militare russo in Ucraina sempre più incombente. Sulla questione si confrontano due interpretazioni. Per alcuni, Mosca sta alzando la posta in gioco per ottenere concessioni da Washington e dagli europei. Altri, al contrario, credono che il Cremlino voglia usare una fin de non-recevoir come pretesto per giustificare un intervento in Ucraina. In ogni caso, si pone la questione del momento scelto da Mosca per impegnarsi in questo braccio di ferro. Perché lanciarsi in questo gioco rischioso? E perché ora?

Dal 2014, gli interventi delle autorità russe hanno aumentato considerevolmente le possibilità che l’economia del paese possa resistere a un forte shock, in particolare per quanto riguarda il settore bancario e finanziario. La quota del dollaro nelle riserve della banca centrale del paese è diminuita. Una carta di pagamento nazionale, Mir, è attualmente nel portafoglio dell’87% della popolazione. E se gli Stati uniti dovessero dare seguito alla loro minaccia di scollegare la Russia dal sistema occidentale Swift, come hanno fatto con l’Iran nel 2012 e nel 2018, i trasferimenti finanziari tra le banche e le aziende russe possono ormai essere effettuati tramite un sistema di messaggeria locale. La Russia si sente quindi meglio attrezzata per far fronte a delle sanzioni severe in caso di conflitto.

D’altra parte, la precedente mobilitazione dell’esercito russo alle frontiere con l’Ucraina nella primavera del 2021 aveva portato al rilancio del dialogo russo-statunitense in materia di questioni strategiche e di sicurezza informatica. Anche questa volta il Cremlino ha ritenuto che la strategia della tensione fosse l’unico modo per farsi sentire dagli occidentali e che la nuova amministrazione statunitense sarebbe stata disposta a fare più concessioni per potersi concentrare sul confronto sempre più pressante con Pechino.

Vladimir Putin sembra voler mettere un freno a quello che definisce il progetto occidentale di trasformare l’Ucraina in una «anti-Russia» nazionalista (1). In effetti, il presidente russo contava sugli accordi di Minsk, firmati nel settembre del 2014, per ottenere il diritto di esercitare un controllo sulla politica ucraina attraverso le repubbliche del Donbass. È successo il contrario: non solo la loro applicazione è a un punto morto, ma il presidente Volodimir Zelenskij, la cui elezione nell’aprile del 2019 aveva dato al Cremlino la speranza di riannodare i legami con Kiev, ha esacerbato la politica di rottura con il «mondo russo» avviata dal suo predecessore. Peggio ancora, la cooperazione tecnologica e militare tra Ucraina e Nato continua a intensificarsi, mentre la fornitura di droni da combattimento da parte della Turchia, anch’essa membro dell’alleanza, fa temere al Cremlino che Kiev sia tentata da una riconquista militare del Donbass. Si tratterebbe quindi, per Mosca, di riprendere l’iniziativa, finché è ancora in tempo. Ma al di là dei fattori congiunturali all’origine delle attuali tensioni, bisogna notare che la Russia non sta facendo altro che ribadire le richieste che continua a formulare dalla fine della guerra fredda, richieste che l’Occidente non considera né accettabili né legittime.

VIOLAZIONE DEL DIRITTO INTERNAZIONALE
L’equivoco risale al crollo del blocco comunista nel 1991. Secondo logica, la scomparsa del patto di Varsavia avrebbe dovuto portare anche alla dissoluzione della Nato, creata per far fronte alla «minaccia sovietica». L’«altra Europa» che aspirava ad avvicinarsi all’Occidente avrebbe avuto bisogno di nuove forme di integrazione. Tanto più che le élite russe, filo-occidentali come mai prima di allora, avevano accettato la liquidazione del proprio impero senza combattere (2). Tuttavia, le proposte in tal senso, avanzate in particolare dalla Francia, erano state insabbiate sotto le pressioni di Washington. Non avendo intenzione di essere derubati della propria «vittoria» su Mosca, gli Stati uniti hanno spinto allora per l’allargamento verso est delle strutture euro-atlantiche ereditate dalla guerra fredda, così da consolidare il proprio dominio in Europa. A tal fine hanno potuto contare su un alleato di peso, la Germania, desiderosa di riconquistare il proprio ascendente sulla Mitteleuropa.

L’allargamento della Nato a est è stato deciso già nel 1997, nonostante i dirigenti occidentali avessero dato a Gorbaciov garanzie in senso contrario (3). Negli Stati uniti, alcune figure di primo piano hanno espresso il loro disaccordo. George Kennan, considerato l’artefice della politica di contenimento dell’Urss, aveva previsto le conseguenze, tanto logiche quanto dannose, di una tale decisione: «L’allargamento della Nato sarebbe il più fatale errore della politica statunitense dalla fine della guerra fredda. Ci si può aspettare che questa decisione susciti tendenze nazionalistiche, antioccidentali e militaristiche nell’opinione pubblica russa; che faccia rivivere un’atmosfera da guerra fredda nelle relazioni est-ovest e che orienti la politica estera russa in una direzione che non sarà quella che noi vogliamo veramente (4)».

Nel 1999 la Nato, celebrando il suo cinquantesimo anniversario in grande stile, ha proceduto con il suo primo allargamento a est (Ungheria, Polonia e Repubblica ceca) e ha annunciato che avrebbe portato avanti questo processo fino ai confini russi. Contemporaneamente, l’Alleanza atlantica è entrata in guerra contro la Jugoslavia, trasformando l’organizzazione da blocco difensivo in alleanza offensiva, il tutto in violazione del diritto internazionale. La guerra contro Belgrado è stata condotta senza l’approvazione dell’Organizzazione delle Nazioni unite (Onu), impedendo a Mosca di usare uno dei suoi ultimi strumenti di potere rimasti, il suo diritto di veto nel Consiglio di sicurezza. Le élite russe, che avevano puntato tanto sull’integrazione del proprio paese nell’Occidente, si sono sentite tradite: la Russia allora presieduta da Boris Eltsin, che aveva lavorato per l’implosione dell’Urss, non si è vista trattare come un partner da ricompensare per il contributo dato alla fine del sistema comunista, ma come il grande perdente della guerra fredda, che doveva pagare il prezzo geopolitico della sconfitta.

Paradossalmente, l’arrivo al potere di Putin l’anno successivo ha coinciso con un periodo di stabilizzazione delle relazioni tra Russia e Occidente. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 il nuovo presidente russo ha moltiplicato i gesti di buona volontà verso Washington, accettando l’installazione temporanea di basi statunitensi in Asia centrale e ordinando allo stesso tempo la chiusura delle basi ereditate dall’Urss a Cuba e il ritiro dei soldati russi presenti in Kosovo. In cambio, la Russia auspicava che l’Occidente accettasse il principio secondo cui lo spazio post-sovietico, che definiva come il suo «estero vicino», rientrava nella sua sfera di responsabilità. Ma mentre le relazioni con l’Europa, e in particolar modo con la Francia e la Germania, si mantenevano piuttosto buone, le incomprensioni con gli Stati uniti non hanno fatto che aumentare. Nel 2003, l’invasione dell’Iraq da parte delle truppe statunitensi senza l’approvazione dell’Onu ha costituito una nuova violazione del diritto internazionale denunciata di concerto da Parigi, Berlino e Mosca. Questa opposizione congiunta delle tre principali potenze del continente europeo ha confermato i timori di Washington in merito ai rischi per l’egemonia statunitense di un riavvicinamento russoeuropeo.

Negli anni successivi, gli Stati uniti hanno annunciato la loro intenzione di installare elementi del loro scudo missilistico di difesa in Europa orientale, in violazione dell’atto fondatore che regola i rapporti Russia-Nato (firmato nel 1997), in base al quale sia Mosca che gli occidentali non avrebbero installato nuove infrastrutture militari permanenti nell’Europa dell’est. Washington ha rimesso in questione anche gli accordi di disarmo nucleare, ritirandosi nel dicembre del 2001 dal trattato anti missili balistici (Abm, 1972).

Timore legittimo o complesso ossidionale, a Mosca le rivoluzioni colorate nello spazio post-sovietico sono percepite come delle operazioni destinate a installare regimi filo-occidentali alle sue porte. Di fatto, nell’aprile del 2008 Washington ha esercitato forti pressioni sui suoi alleati europei per ratificare la vocazione della Georgia e dell’Ucraina a entrare nella Nato, anche se la stragrande maggioranza degli ucraini si opponeva allora a tale adesione. Allo stesso tempo, gli Stati uniti hanno spinto per il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo, anche in questo caso in violazione del diritto internazionale, trattandosi giuridicamente di una provincia serba.

La Russia ha risposto a questa apertura da parte degli Occidentali del vaso di pandora dell’interventismo e della messa in questione dell’intangibilità dei confini sul continente europeo intervenendo militarmente in Georgia nel 2008 e poi riconoscendo l’indipendenza dell’Ossezia del Sud e dell’Abcasia. Così facendo, il Cremlino ha segnalato che farà di tutto per impedire un ulteriore allargamento della Nato a est. Sfidando l’integrità territoriale della Georgia, la Russia sta però violando a sua volta il diritto internazionale.

Il risentimento russo ha raggiunto un punto di non ritorno con la crisi ucraina. Alla fine del 2013, europei e statunitensi hanno sostenuto le manifestazioni che hanno portato al rovesciamento del presidente Viktor Janukovi, nonostante la sua elezione nel 2010 fosse stata riconosciuta come conforme agli standard democratici. Per Mosca, gli occidentali hanno sostenuto un colpo di Stato al fine di ottenere costi quel che costi l’aggregazione dell’Ucraina al loro campo. Da quel momento, le ingerenze russe in Ucraina – annessione della Crimea e sostegno militare non ufficiale ai separatisti del Donbass – sono state presentate dal Cremlino come una risposta legittima al colpo di Stato filooccidentale a Kiev. Dal canto loro, le capitali occidentali hanno considerato questi interventi come una sfida senza precedenti all’ordine internazionale post-guerra fredda.

SERVILISMO ATLANTISTA
Gli accordi di Minsk, firmati nel settembre del 2014, hanno dato a Francia e Germania l’opportunità di guidare i tentativi di trovare una soluzione negoziata al conflitto nel Donbass. È stato necessario lo scoppio di un conflitto armato sul continente perché Parigi e Berlino uscissero dalla loro passività. Sette anni più tardi, tuttavia, il processo sembra essersi arenato. Kiev continua a rifiutare di concedere un’autonomia al Donbass, sebbene sia prevista dagli accordi. Di fronte all’assenza di reazioni da parte di Parigi e Berlino, accusate di allinearsi alle posizioni ucraine, il Cremlino sta cercando di negoziare direttamente con gli statunitensi, che considera i veri sostenitori di Kiev. Allo stesso tempo, Mosca sembra stupita del fatto che gli europei accettino tutte le iniziative statunitensi, anche le più discutibili, senza reagire. È il caso ad esempio del ritiro di Washington dal trattato sulle forze nucleari intermedie (Inf) nel febbraio 2019, che avrebbe dovuto suscitare la loro opposizione, essendo potenzialmente i primi obiettivi di questo tipo di armi. Secondo la ricercatrice Isabelle Facon, la Russia «nutre, con percepibile fastidio, la convinzione incrollabile che i paesi europei siano irrimediabilmente incapaci di esercitare un’autonomia strategica nei confronti degli Stati uniti e che rifiutino di assumersi le loro responsabilità riguardo al deterioramento della situazione strategica internazionale (5)».

Cosa ancora più sorprendente, quando russi e statunitensi hanno ripreso contatti per discutere di questioni strategiche, con l’estensione di cinque anni del trattato sulla riduzione delle armi nucleari New Start, seguita dal vertice Biden-Putin del giugno 2021, l’Unione europea, lungi dallo spingere per una distensione con Mosca, ha rifiutato per principio un incontro con il presidente russo. Per la Polonia, che ha contribuito a silurare questa iniziativa, «[un incontro avrebbe accreditato] il presidente Vladimir Putin invece di punire una politica aggressiva (6)». Questo sottrarsi al dialogo è in contrasto con l’atteggiamento degli europei nei confronti dell’altro grande vicino dell’Unione europea, la Turchia. Nonostante il suo attivismo militare (occupazione di Cipro del Nord e di una parte del territorio siriano, invio di truppe in Iraq, in Libia e nel Caucaso), il regime autoritario di Recep Tayyip Erdoğan, tra le altre cose alleato di Kiev, non è soggetto ad alcuna sanzione. Nel caso della Russia, al contrario, la politica degli europei consiste solo nel minacciare regolarmente una nuova serie di misure restrittive, a seconda delle azioni del Cremlino. Per quanto riguarda l’Ucraina, si limitano a ripetere come da dettami Nato che le porte sono aperte, nonostante le grandi capitali europee, Francia e Germania in testa, abbiano espresso in passato la loro opposizione e non abbiano in fondo alcuna intenzione di integrare l’Ucraina nella loro alleanza militare.

La crisi nelle relazioni russo-occidentali dimostra che la sicurezza del continente europeo non può essere garantita senza – e tantomeno contro – la Russia. Al contrario, Washington sta lavorando per favorire questa esclusione, rafforzando al contempo la propria egemonia in Europa. Da parte loro, gli europei occidentali, con la Francia in prima fila, non hanno avuto la visione e il coraggio politico di contrastare le iniziative più provocatorie di Washington e di proporre un quadro istituzionale inclusivo che impedisca la ricomparsa di linee di faglia nel continente. Il risultato di questo servilismo atlantista è che francesi ed europei continuano a essere bistrattati dagli Stati uniti. Il ritiro non concertato dall’Afghanistan, come la creazione di un’alleanza militare nel Pacifico senza l’avallo di Parigi, non sono che gli ultimi episodi di questo atteggiamento disinvolto. Sullo sfondo di un rischio di guerra in Ucraina, gli europei si limitano ormai a osservare da spettatori i negoziati russo-statunitensi in merito alla sicurezza del Vecchio continente.

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BIELORUSSIA: Mosca chiederà a Lukashenko di entrare in guerra

Lukashenko è oggi a Mosca: Putin gli chiederà di entrare in guerra contro l’Ucraina. Saprà il leader bielorusso resistere a questa scelta tragica?

L’incontro  organizzato in Turchia tra i Ministri degli esteri ucraino e russo Kuleba e Lavrov si è concluso con un nulla di fatto. Di cessate il fuoco non si è nemmeno parlato, e Lavrov ha dichiarato che di quello si devono occupare le delegazioni che si incontrano in Bielorussia. E’ chiaro che senza un cessate il fuoco qualsiasi trattativa non ha reale serietà. Lavrov ha anche dichiarato seraficamente che la Russia non ha aggredito nessuno.

Tra le consuete evidenti assurdità traspare comunque la volontà dell’aggressore di portare a compimento l’invasione dell’Ucraina, e solo le difficoltà incontrate sul campo e l’eroica resistenza degli ucraini, superiore a qualunque attesa, lo hanno sinora impedito. La tenuta psicologica dell’aggressore è sottoposta a serie difficoltà, il blitzkrieg desiderato è ormai fallito, le sanzioni occidentali stanno manifestando una potenza inattesa, capace di mettere in ginocchio l’economia russa in un breve lasso di tempo, e proprio in questa difficoltà crescono i rischi di comportamenti gravi ed inconsulti e di azioni in grado di portare a conseguenze estreme.

Ora, possediamo informazioni secondo cui l’intenzione del Cremlino è quella di trascinare in guerra con sé la Bielorussia. In questi giorni ha espresso a Lukashenko la propria forte richiesta, e il Presidente bielorusso ha manifestato resistenza: non è in grado a suo dire di prendere una tale decisione senza consultare le forze armate e la nazione. Il Cremlino lo ha convocato a Mosca, e già oggi Lukashenko sarà in visita in Russia, anche fisicamente ostaggio di chi ha salvato il suo regime al  momento delle grandi proteste dopo le elezioni. Si tratterà probabilmente del suo viaggio più difficile.

Tutti gli osservatori sanno che Lukashenko, per salvarsi dalle proteste si è praticamente consegnato al potere russo, e ora il capo del paese fratello gli sta chiedendo una decisione tragica.  La Russia è disposta a tutto pur di piegare la resistenza ucraina, e sta reclutando milizie in Siria da riversare sul fronte dell’aggressione. Senza l’intervento di forze fresche non riuscirà probabilmente ad aver ragione dell’Ucraina, e quindi è disposto a qualunque soluzione.

Nei giorni scorsi si è avuta notizia di un forte scontento negli alti gradi militari bielorussi rispetto a qualsiasi collaborazione nell’attacco all’Ucraina, e già è grave la responsabilità storica di aver consentito ai russi di attaccare dal territorio bielorusso. Sarà interessante verificare se l’esercito bielorusso se la sentirà di aggredire un paese veramente fratello, con cui non ha alcun motivo di combattere. Momenti drammatici sembrano attendere il paese e il suo Presidente, nelle mani di Mosca.

 

 

UCRAINA: La guerra, le sanzioni e Odessa

L’avanzata russa incontra più difficoltà del previsto, ma non si ferma. Prossimo obiettivo Odessa, ma la Russia sente l’effetto delle sanzioni

La guerra della Russia all’Ucraina non procede secondo i desideri del Cremlino: nonostante lo sprezzo per le vittime civili e un atteggiamento crudele e spregiudicato, che potrebbe già aver dato luogo a crimini di guerra, l’esercito russo sta incontrando difficoltà inaspettate. Dopo aver perduto innumerevoli elicotteri ed aerei, oltre a un numero incalcolabile di carri armati e mezzi pesanti, e un alto numero di uomini, sta sfogando la propria rabbia con bombardamenti aerei sulle città di Kharkov, Chernihiv, Mariupol, Sumi, oltre che sulle periferie di Kiev, in particolare Irpen.

La trappola dei corridoi umanitari

Si è giunti alla terza tornata di colloqui tra le due parti nella foresta bielorussa, ma la sola concessione da parte russa, ovvero l’offerta di corridoi umanitari per gli abitanti delle zone sotto assedio, in particolare Mariupol, è una ignobile trappola: si vorrebbe far evacuare i civili bombardati in territorio russo, facendo per di più la figura dei salvatori, per poter spianare le città assassinando senza più patemi tutti i resistenti. Ci si augura che l’Ucraina non cada in questo tranello.

Verso Odessa

Mariupol resiste senza acqua né cibo né riscaldamento da giorni, e i bombardamenti sono incessanti: è la parte meridionale del paese, come previsto, l’obiettivo più immediato dell’aggressione, per poter occupare tutta la costa del Mar d’Azov, la zona del Canale di Crimea, Kherson, unica città sinora conquistata, e avanzare poi verso Odessa, vero obiettivo della sanguinaria avanzata. La città di Nikolaev sta resistendo, e per ora sbarra la strada verso Odessa: i russi vorrebbero sbarcare dalle navi in attesa di fronte alla città, ma sinora non hanno trovato il modo per farsi strada senza gravi perdite.

La resistenza degli ucraini è ammirevole, e ovunque i progressi dell’aggressore sono molto rallentati. Ci si augura che a Odessa non operi una quinta colonna che possa indebolire la difesa della città. Gli ostacoli d’acciaio anticarro disseminati sulla Deribasosvskaia fanno sobbalzare chi li guardi, cancellano l’atmosfera della città e richiamano incubi degni della guerra patriottica: solo che ora l’aggressore è fratricida, il pugnale viene calato alla schiena.

Bombardare i civili

Kharkiv piange il proprio centro storico bombardato senza ritegno, i palazzi staliniani anneriti dagli incendi e dalle esplosioni mostrano il cielo alle finestre: un cielo da cui i caccia di Mosca lanciano bombe da grande altezza, per sfuggire ai lanciarazzi dei difensori, accettando il rischio di incenerire i civili. Mariupol assediata è l’ultimo ostacolo prima che le truppe convergenti possano chiudere la morsa sul mar d’Azov, e la sua resistenza rallenta la possibile avanzata verso nord, e le città di Zaporizhia, già colpita, e Dnipro, la ex Dnepropetrovsk, ancora indenne. Il governo ucraino ha notato una recente concentrazione di forze nemiche nei pressi di Kiev, in vista di un possibile tentativo di assalire direttamente la città.

Fingere la pace

A quanto afferma il presidente francese Macron, dopo colloqui telefonici con l’aggressore, vi è una totale determinazione a perseguire l’obiettivo di conquista militare, dunque non ci si può aspettare nulla di buono, e i colloqui di pace sono l’ennesimo inganno per poter trarre ulteriori vantaggi. Hitler, mentre bombardava la Polonia, non si fermava a discutere coi polacchi. Le bombe continuano a cadere sui cittadini ucraini inermi mentre le controfigure del regime aggressore cercano di strappare nefasti corridoi che accelerino la distruzione.

Le sanzioni funzionano

Nel frattempo le sanzioni di Europa e Stati uniti stanno minando gravemente l’economia russa, il debito sovrano ha ormai raggiunto il rating Ca, che precede il default, e il dollaro ha raggiunto quasi i 150 rubli, dai 70 di inizio anno: il valore della moneta si sta sbriciolando, e la quotazione dei maggiori asset del paese alla Borsa di Londra segue la stessa strada. Le carte di credito Visa e Mastercard non funzionano più, la maggior parte delle banche è esclusa dal sistema Swift, ogni transazione è rallentata se non impossibile, tra poco davvero il potere russo riuscirà nell’intento di tornare all’unione Sovietica, distruggendo le conquiste economiche di molti anni, con i diritti di libertà del cittadino azzerati: mentre l’unico oppositore Navalny langue in carcere, scrivere pubblicamente le parole “guerra in Ucraina” fa rischiare sino a quindici anni di carcere.

Una no-fly zone?

Le norme liberticide hanno fatto chiudere precipitosamente gli uffici dei media stranieri in Russia, per paura di pene detentive. Il Segretario di Stato americano Blinken sta cercando di far giungere all’Ucraina aerei Mig-29 di proprietà polacca. Anche la richiesta di una no-fly zone sull’Ucraina è stata respinta per paura di un allargamento del conflitto. Ci si pone una domanda: si attende che l’aggressore inizi a martellare con l’artiglieria i cittadini inermi della capitale Kiev prima di prendere in considerazione un tale passo?

Dino BARRA  pubblica :
 
Ho letto l’articolo di Luigi Manconi sulla moralità della resistenza in Ucraina e sulla giustezza di mandare armi. Non sono d’accordo (con Manconi non mi capita quasi mai) ma riconosco le ragioni e la serietà e ci penso. Vorrei che anche chi è d’accordo riconoscesse e rispettasse le mie, che non riguardano certo la moralità della resistenza – in Ucraina come in Italia o in Kurdistan – ma la difficoltà di un paragone storico fra tempi e contesti molto diversi. Forse anche per questo l’Anpi, che di Resistenza qualcosa sa, la pensa diversamente.
Quando gli alleati fornivano armi ai partigiani, infatti, erano già in guerra con la Germania; non solo, ma quella guerra la stavano vincendo e, particolare non secondario, avevano già «gli stivali sul terreno» in Italia, ed erano loro, non gli invasori tedeschi, che bombardavano le nostre città occupate col fine di far durare di meno la guerra. Quindi il paragone regge solo se: a) pensiamo di essere già in guerra con la Russia; b) pensiamo di vincerla militarmente; c) pensiamo che l’invio di armi abbrevierà il conflitto anziché prolungarlo, incaricando gli ucraini di fare la guerra con le nostre armi per nostro conto.
Ho nominato il Kurdistan. Non credo che ci fossero dubbi sulla moralità della resistenza nel Rojava. Però non solo non gli abbiamo mandato armi, ma mentre paragoniamo chi si arruola per combattere col battaglione Azov alle Brigate Internazionali di Spagna, gli italiani che sono andati a combattere nel Rojava li teniamo sotto sorveglianza di polizia perché possibili minacce all’ordine pubblico. È vero che il Rojava non stava «nel cuore dell’Europa»: stava in Turchia, paese nostro alleato, nel cuore della Nato, portatore dei nostri valori occidentali.
Manconi non lo dice e non credo che lo pensi, ma metterla in termini di moralità rischia di bollare come immorale chi la pensa in altro modo. Abbiamo troppo interiorizzato una mentalità antagonistica e non dialogica: sì green pass o no green pass, o servi di Putin o servi della Nato, o di qua o di là e chi sta di là è un nemico immorale. Siamo tutti convinti che l’aggressione deve finire e si deve raggiungere un compromesso. Discutiamo e litighiamo fra noi sui mezzi per arrivarci ma non dimentichiamo ciò che unisce e rende possibile parlarsi. E ascoltarsi.
Alessandro Portelli, Il Manifesto dell'11.3.22

 

Raniero La Valle: “Il tragico errore di non lasciare a Putin, preso per pazzo e come nemico assoluto, altra via d’uscita che la guerra”

 

L’invasione russa dell’Ucraina ha suscitato una condanna senza se e senza ma, cosa giustissima perché come aveva detto Giovanni XXIII nella “Pacem in Terris” è “fuori della ragione che in questa età, che si gloria della potenza atomica (vi atomica gloriatur), la guerra sia atta a risarcire i diritti violati”. E la Carta dell’ONU vieta l’uso della forza contro l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di qualsiasi Stato.
Ma se non per la guerra stessa, i “se” possono essere invocati riguardo ai suoi precedenti e i “ma” riguardo ai modi con cui ad essa si è risposto.
Riguardo ai precedenti è chiaro che non ci sarebbe stata guerra se non si fosse negata qualsiasi alternativa all’ingresso dell’Ucraina nella NATO. In effetti non erano in gioco gli interessi vitali di nessuno, perciò sarebbe bastato un accordo sulla sicurezza senza far entrare la NATO in Ucraina. Se poi questo era, come suonano le accuse, solo un pretesto colto da Putin per assecondare le sue pulsioni neoimperiali, sfogare la sua fobia antiamericana, ricostituire l’Unione Sovietica e restaurare addirittura il millenario impero di Pietro il grande e di san Pietroburgo, allora perché non metterlo alla prova togliendogli tale pretesto?
D’altra parte gli Stati Uniti prima hanno spinto l’Ucraina fino alla linea del fuoco, e poi dichiarato che nemmeno un soldato americano sarebbe andato sul suo suolo per difenderla nella guerra da loro provocata.
In tal modo l’Ucraina è stata presa dagli uni e dagli altri come vittima sacrificale, e come spesso accade con la vittima sacrificale, almeno secondo l’analisi di René Girard (fatta eccezione di Gesù che ne ha smascherato il meccanismo) l’Ucraina stessa ha provocato il suo sacrificio attraverso un’insensata e letale politica di intransigenza.
Riguardo alle risposte alla crisi, alla Russia sono state irrogate sanzioni capaci di provocare al suo popolo il massimo dolore, di metterla fuori del sistema monetario e del commercio mondiale, e in sintesi di precipitarla nella condizione di paria. Tutto ciò letteralmente annunciato da Biden, e poi fatto proprio dal corteggio dell’Europa e di tutto l’Occidente.
Ora, a parte l’efficacia e l’autolesionismo di queste sanzioni, sottrarre a qualcuno l’uso del denaro e del commercio può sembrare una misura non militare e moderna, ma è in realtà una misura apocalittica ed antica. Nell’apocalisse di Giovanni si descrive infatti la guerra finale nella quale la bestia che raffigura i poteri mondani mette sulle mani e sulla fronte di tutti, “piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi” un marchio che per così dire li accredita, in modo che nessuno che non abbia tale marchio possa “comprare e vendere”, cioè possa vivere. Dunque se la guerra è una realtà apocalittica, la messa al bando e l’esclusione dal circuito del denaro è l’altra faccia della violenza apocalittica. Il messaggio che in tal modo era mandato alla Russia, insieme alla cacciata dal Consiglio d’Europa, dalle competizione sportive e tutto il resto era che la Russia deve sparire dalla faccia della terra.
In tal modo si è fatto il tragico errore di non lasciare a Putin, preso per pazzo e come nemico assoluto, altra via d’uscita che la guerra.
È un miracolo che di azione in reazione non si sia arrivati alla guerra nucleare, ma tutto ciò dimostra la catastroficità della politica e dell’attuale ordine globale del mondo che ci hanno portato fin qui. È tutto questo che dobbiamo cambiare.

mercoledì 2 marzo 2022

 

Guerra in Ucraina: che cosa è successo oggi 2 marzo

Slittano a domani i nuovi negoziati, l'Onu discute una risoluzione contro la Russia, sul tavolo della Nato spunta l'ipotesi della no-fly zone. Raid su Mariupol, Kharkiv e a Nord di Kiev

Guerra in Ucraina: che cosa è successo oggi 2 marzo Ap photo
Gli effetti dei bombardamenti su Mariupol, città portuale sul Mar d'Azov

C'è molta attesa per il secondo round negoziale, che potrebbe slittare a domani. Intanto, l'avanzata russa prosegue su diversi fronti. Sono incerti i numeri delle vittime civili: secondo i servizi di emergenza ucraini sono oltre duemila. L'Onu al momento ha stimato in 136 i civili uccisi, ma ha avvertito che il bilancio potrebbe essere ben più alto. Gli Stati Uniti, riferisce il New York Times, stimano che i morti russi siano circa 2000. Secondo alcuni funzionari del Pentagono, invece, le vittime sarebbero circa 1.500 fra i russi e 1.500 fra gli ucraini. Si conterebbero 800 mila profughi dall'inizio dell'invasione russa.


  • I colloqui tra Russia e Ucraina erano stati in un primo momento confermati per questa sera nella foresta Belovezhskaya Pushcha della regione di Brest, in Bielorussia, al confine con la Polonia. Ma mentre la delegazione russa sarebbe già a destinazione o quasi, e il capo negoziatore Vladimir Medinsky ha riferito che l'ipotesi di cessate il fuoco sarà sul tavolo, quella ucraina sarebbe rallentata da "alcuni problemi logistici", secondo l'analista bielorusso Yury Voskresensky, e l'agenzia russa Tass ha scritto poco fa che i negoziati slitterebbero a domani. Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha suggerito che Kiev stia prendendo tempo su indicazione degli Stati Uniti, e ha evocato il rischio di una terza guerra mondiale "nucleare e devastante". Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha detto di non attendersi grandi progressi: Vladimir Putin, secondo lui, vuole cancellare l'Ucraina.


  • È intanto in corso l'assemblea generale dell'Onu, dove è in discussione una risoluzione contro la Russia. Nel corso del dibattito, i paesi occidentali hanno accusato il Cremlino di violare l'articolo 2 della carta delle Nazioni Unite che intima ai suoi membri di astenersi dalla minaccia e dal ricorso alla forza per risolvere una crisi, mentre la Russia afferma di esercitare il suo diritto all'autodifesa, previsto dall'articolo 51 della Carta. L'assemblea ha mostrato una maggioranza schiacciante contr l'azione di Mosca. I fari sono puntati sulla Cina, stretta alleata di Mosca.


  • La Nato starebbe "valutando l'ipotesi di dar vita a una no-fly zone sui cieli dell'Ucraina su richiesta di Kiev", sostiene il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba. Questa opzione, finora esclusa esplicitamente dai leader occidentali, contemplerebbe automaticamente la possibilità di dover prendere di mira aerei militari russi e quindi, sulla carta, d'innescare uno scontro diretto con Mosca. Intanto, Biden ha approvato l'invio di ulteriori 3.000 soldati Usa in Polonia e Romania per rafforzare il fianco orientale della Nato


  • Sul terreno, assume contorni particolarmente drammatici la battaglia per Mariupol, città portuale di mezzo milione di abitanti sul Mar d'Azov la cui conquista permetterebbe alla Russia di aprire un corridoio tra la Crimea e il Donbass. Da questa mattina è bersaglio di ininterrotti bombardamenti delle forze russe. Sindaco e vicesindaco hanno denunciato che le forze russe starebbero impedendo l'evacuazione dei civili e stimato centinaia di morti.


  • Quattrocento chilometri più a ovest, sul Mar Nero, si combatte per Kherson, che ha 250mila abitanti circa. Le forze russe hanno annunciato di averla conquistata, ma il sindaco Igor Kolykhaiev ha negato: "Siamo ancora Ucraina, resistiamo".


  • A Est, continua a essere colpita dai raid dell'aviazione di Mosca la città di Kharkiv, la seconda più popolosa del paese. In un raid i questo pomeriggio sarebbero stati danneggiati il palazzo del consiglio municipale, il palazzo del Lavoro e altri edifici. Quattro persone avrebbero perso la vita, nove quelle rimaste ferite. Un attacco missilistico avrebbe avuto luogo vicino alla torre della televisione.


  • Prosegue lentamente l'avanzata verso il centro della capitale Kiev, mentre poco più a Nord, a Chernihiv, è stato bombardato l'ospedale cittadino