sabato 12 marzo 2022

DAVID TEURTRIE Ricercatore associato presso l’Istituto nazionale di lingue e civiltà orientali (Inalco), autore di Russie. Le retour de la puissance, Armand Colin, Malakoff, 2021.

Il rumore degli stivali alle porte dell’Europa ha gettato nel panico le cancellerie occidentali. Per tentare di ottenere garanzie in merito alla protezione della propria integrità territoriale, la Russia ha presentato agli statunitensi due progetti di trattato volti a riformare la gestione della sicurezza in Europa, al contempo ammassando truppe al confine ucraino. Mosca chiede un congelamento formale dell’espansione dell’Organizzazione del trattato dell’Atlantico del nord (Nato) verso est, il ritiro delle truppe occidentali dai paesi dell’Europa orientale e il rimpatrio delle armi nucleari statunitensi schierate in Europa. Non potendo essere soddisfatte così come sono, queste richieste in forma di ultimatum rendono la minaccia di un intervento militare russo in Ucraina sempre più incombente. Sulla questione si confrontano due interpretazioni. Per alcuni, Mosca sta alzando la posta in gioco per ottenere concessioni da Washington e dagli europei. Altri, al contrario, credono che il Cremlino voglia usare una fin de non-recevoir come pretesto per giustificare un intervento in Ucraina. In ogni caso, si pone la questione del momento scelto da Mosca per impegnarsi in questo braccio di ferro. Perché lanciarsi in questo gioco rischioso? E perché ora?

Dal 2014, gli interventi delle autorità russe hanno aumentato considerevolmente le possibilità che l’economia del paese possa resistere a un forte shock, in particolare per quanto riguarda il settore bancario e finanziario. La quota del dollaro nelle riserve della banca centrale del paese è diminuita. Una carta di pagamento nazionale, Mir, è attualmente nel portafoglio dell’87% della popolazione. E se gli Stati uniti dovessero dare seguito alla loro minaccia di scollegare la Russia dal sistema occidentale Swift, come hanno fatto con l’Iran nel 2012 e nel 2018, i trasferimenti finanziari tra le banche e le aziende russe possono ormai essere effettuati tramite un sistema di messaggeria locale. La Russia si sente quindi meglio attrezzata per far fronte a delle sanzioni severe in caso di conflitto.

D’altra parte, la precedente mobilitazione dell’esercito russo alle frontiere con l’Ucraina nella primavera del 2021 aveva portato al rilancio del dialogo russo-statunitense in materia di questioni strategiche e di sicurezza informatica. Anche questa volta il Cremlino ha ritenuto che la strategia della tensione fosse l’unico modo per farsi sentire dagli occidentali e che la nuova amministrazione statunitense sarebbe stata disposta a fare più concessioni per potersi concentrare sul confronto sempre più pressante con Pechino.

Vladimir Putin sembra voler mettere un freno a quello che definisce il progetto occidentale di trasformare l’Ucraina in una «anti-Russia» nazionalista (1). In effetti, il presidente russo contava sugli accordi di Minsk, firmati nel settembre del 2014, per ottenere il diritto di esercitare un controllo sulla politica ucraina attraverso le repubbliche del Donbass. È successo il contrario: non solo la loro applicazione è a un punto morto, ma il presidente Volodimir Zelenskij, la cui elezione nell’aprile del 2019 aveva dato al Cremlino la speranza di riannodare i legami con Kiev, ha esacerbato la politica di rottura con il «mondo russo» avviata dal suo predecessore. Peggio ancora, la cooperazione tecnologica e militare tra Ucraina e Nato continua a intensificarsi, mentre la fornitura di droni da combattimento da parte della Turchia, anch’essa membro dell’alleanza, fa temere al Cremlino che Kiev sia tentata da una riconquista militare del Donbass. Si tratterebbe quindi, per Mosca, di riprendere l’iniziativa, finché è ancora in tempo. Ma al di là dei fattori congiunturali all’origine delle attuali tensioni, bisogna notare che la Russia non sta facendo altro che ribadire le richieste che continua a formulare dalla fine della guerra fredda, richieste che l’Occidente non considera né accettabili né legittime.

VIOLAZIONE DEL DIRITTO INTERNAZIONALE
L’equivoco risale al crollo del blocco comunista nel 1991. Secondo logica, la scomparsa del patto di Varsavia avrebbe dovuto portare anche alla dissoluzione della Nato, creata per far fronte alla «minaccia sovietica». L’«altra Europa» che aspirava ad avvicinarsi all’Occidente avrebbe avuto bisogno di nuove forme di integrazione. Tanto più che le élite russe, filo-occidentali come mai prima di allora, avevano accettato la liquidazione del proprio impero senza combattere (2). Tuttavia, le proposte in tal senso, avanzate in particolare dalla Francia, erano state insabbiate sotto le pressioni di Washington. Non avendo intenzione di essere derubati della propria «vittoria» su Mosca, gli Stati uniti hanno spinto allora per l’allargamento verso est delle strutture euro-atlantiche ereditate dalla guerra fredda, così da consolidare il proprio dominio in Europa. A tal fine hanno potuto contare su un alleato di peso, la Germania, desiderosa di riconquistare il proprio ascendente sulla Mitteleuropa.

L’allargamento della Nato a est è stato deciso già nel 1997, nonostante i dirigenti occidentali avessero dato a Gorbaciov garanzie in senso contrario (3). Negli Stati uniti, alcune figure di primo piano hanno espresso il loro disaccordo. George Kennan, considerato l’artefice della politica di contenimento dell’Urss, aveva previsto le conseguenze, tanto logiche quanto dannose, di una tale decisione: «L’allargamento della Nato sarebbe il più fatale errore della politica statunitense dalla fine della guerra fredda. Ci si può aspettare che questa decisione susciti tendenze nazionalistiche, antioccidentali e militaristiche nell’opinione pubblica russa; che faccia rivivere un’atmosfera da guerra fredda nelle relazioni est-ovest e che orienti la politica estera russa in una direzione che non sarà quella che noi vogliamo veramente (4)».

Nel 1999 la Nato, celebrando il suo cinquantesimo anniversario in grande stile, ha proceduto con il suo primo allargamento a est (Ungheria, Polonia e Repubblica ceca) e ha annunciato che avrebbe portato avanti questo processo fino ai confini russi. Contemporaneamente, l’Alleanza atlantica è entrata in guerra contro la Jugoslavia, trasformando l’organizzazione da blocco difensivo in alleanza offensiva, il tutto in violazione del diritto internazionale. La guerra contro Belgrado è stata condotta senza l’approvazione dell’Organizzazione delle Nazioni unite (Onu), impedendo a Mosca di usare uno dei suoi ultimi strumenti di potere rimasti, il suo diritto di veto nel Consiglio di sicurezza. Le élite russe, che avevano puntato tanto sull’integrazione del proprio paese nell’Occidente, si sono sentite tradite: la Russia allora presieduta da Boris Eltsin, che aveva lavorato per l’implosione dell’Urss, non si è vista trattare come un partner da ricompensare per il contributo dato alla fine del sistema comunista, ma come il grande perdente della guerra fredda, che doveva pagare il prezzo geopolitico della sconfitta.

Paradossalmente, l’arrivo al potere di Putin l’anno successivo ha coinciso con un periodo di stabilizzazione delle relazioni tra Russia e Occidente. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 il nuovo presidente russo ha moltiplicato i gesti di buona volontà verso Washington, accettando l’installazione temporanea di basi statunitensi in Asia centrale e ordinando allo stesso tempo la chiusura delle basi ereditate dall’Urss a Cuba e il ritiro dei soldati russi presenti in Kosovo. In cambio, la Russia auspicava che l’Occidente accettasse il principio secondo cui lo spazio post-sovietico, che definiva come il suo «estero vicino», rientrava nella sua sfera di responsabilità. Ma mentre le relazioni con l’Europa, e in particolar modo con la Francia e la Germania, si mantenevano piuttosto buone, le incomprensioni con gli Stati uniti non hanno fatto che aumentare. Nel 2003, l’invasione dell’Iraq da parte delle truppe statunitensi senza l’approvazione dell’Onu ha costituito una nuova violazione del diritto internazionale denunciata di concerto da Parigi, Berlino e Mosca. Questa opposizione congiunta delle tre principali potenze del continente europeo ha confermato i timori di Washington in merito ai rischi per l’egemonia statunitense di un riavvicinamento russoeuropeo.

Negli anni successivi, gli Stati uniti hanno annunciato la loro intenzione di installare elementi del loro scudo missilistico di difesa in Europa orientale, in violazione dell’atto fondatore che regola i rapporti Russia-Nato (firmato nel 1997), in base al quale sia Mosca che gli occidentali non avrebbero installato nuove infrastrutture militari permanenti nell’Europa dell’est. Washington ha rimesso in questione anche gli accordi di disarmo nucleare, ritirandosi nel dicembre del 2001 dal trattato anti missili balistici (Abm, 1972).

Timore legittimo o complesso ossidionale, a Mosca le rivoluzioni colorate nello spazio post-sovietico sono percepite come delle operazioni destinate a installare regimi filo-occidentali alle sue porte. Di fatto, nell’aprile del 2008 Washington ha esercitato forti pressioni sui suoi alleati europei per ratificare la vocazione della Georgia e dell’Ucraina a entrare nella Nato, anche se la stragrande maggioranza degli ucraini si opponeva allora a tale adesione. Allo stesso tempo, gli Stati uniti hanno spinto per il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo, anche in questo caso in violazione del diritto internazionale, trattandosi giuridicamente di una provincia serba.

La Russia ha risposto a questa apertura da parte degli Occidentali del vaso di pandora dell’interventismo e della messa in questione dell’intangibilità dei confini sul continente europeo intervenendo militarmente in Georgia nel 2008 e poi riconoscendo l’indipendenza dell’Ossezia del Sud e dell’Abcasia. Così facendo, il Cremlino ha segnalato che farà di tutto per impedire un ulteriore allargamento della Nato a est. Sfidando l’integrità territoriale della Georgia, la Russia sta però violando a sua volta il diritto internazionale.

Il risentimento russo ha raggiunto un punto di non ritorno con la crisi ucraina. Alla fine del 2013, europei e statunitensi hanno sostenuto le manifestazioni che hanno portato al rovesciamento del presidente Viktor Janukovi, nonostante la sua elezione nel 2010 fosse stata riconosciuta come conforme agli standard democratici. Per Mosca, gli occidentali hanno sostenuto un colpo di Stato al fine di ottenere costi quel che costi l’aggregazione dell’Ucraina al loro campo. Da quel momento, le ingerenze russe in Ucraina – annessione della Crimea e sostegno militare non ufficiale ai separatisti del Donbass – sono state presentate dal Cremlino come una risposta legittima al colpo di Stato filooccidentale a Kiev. Dal canto loro, le capitali occidentali hanno considerato questi interventi come una sfida senza precedenti all’ordine internazionale post-guerra fredda.

SERVILISMO ATLANTISTA
Gli accordi di Minsk, firmati nel settembre del 2014, hanno dato a Francia e Germania l’opportunità di guidare i tentativi di trovare una soluzione negoziata al conflitto nel Donbass. È stato necessario lo scoppio di un conflitto armato sul continente perché Parigi e Berlino uscissero dalla loro passività. Sette anni più tardi, tuttavia, il processo sembra essersi arenato. Kiev continua a rifiutare di concedere un’autonomia al Donbass, sebbene sia prevista dagli accordi. Di fronte all’assenza di reazioni da parte di Parigi e Berlino, accusate di allinearsi alle posizioni ucraine, il Cremlino sta cercando di negoziare direttamente con gli statunitensi, che considera i veri sostenitori di Kiev. Allo stesso tempo, Mosca sembra stupita del fatto che gli europei accettino tutte le iniziative statunitensi, anche le più discutibili, senza reagire. È il caso ad esempio del ritiro di Washington dal trattato sulle forze nucleari intermedie (Inf) nel febbraio 2019, che avrebbe dovuto suscitare la loro opposizione, essendo potenzialmente i primi obiettivi di questo tipo di armi. Secondo la ricercatrice Isabelle Facon, la Russia «nutre, con percepibile fastidio, la convinzione incrollabile che i paesi europei siano irrimediabilmente incapaci di esercitare un’autonomia strategica nei confronti degli Stati uniti e che rifiutino di assumersi le loro responsabilità riguardo al deterioramento della situazione strategica internazionale (5)».

Cosa ancora più sorprendente, quando russi e statunitensi hanno ripreso contatti per discutere di questioni strategiche, con l’estensione di cinque anni del trattato sulla riduzione delle armi nucleari New Start, seguita dal vertice Biden-Putin del giugno 2021, l’Unione europea, lungi dallo spingere per una distensione con Mosca, ha rifiutato per principio un incontro con il presidente russo. Per la Polonia, che ha contribuito a silurare questa iniziativa, «[un incontro avrebbe accreditato] il presidente Vladimir Putin invece di punire una politica aggressiva (6)». Questo sottrarsi al dialogo è in contrasto con l’atteggiamento degli europei nei confronti dell’altro grande vicino dell’Unione europea, la Turchia. Nonostante il suo attivismo militare (occupazione di Cipro del Nord e di una parte del territorio siriano, invio di truppe in Iraq, in Libia e nel Caucaso), il regime autoritario di Recep Tayyip Erdoğan, tra le altre cose alleato di Kiev, non è soggetto ad alcuna sanzione. Nel caso della Russia, al contrario, la politica degli europei consiste solo nel minacciare regolarmente una nuova serie di misure restrittive, a seconda delle azioni del Cremlino. Per quanto riguarda l’Ucraina, si limitano a ripetere come da dettami Nato che le porte sono aperte, nonostante le grandi capitali europee, Francia e Germania in testa, abbiano espresso in passato la loro opposizione e non abbiano in fondo alcuna intenzione di integrare l’Ucraina nella loro alleanza militare.

La crisi nelle relazioni russo-occidentali dimostra che la sicurezza del continente europeo non può essere garantita senza – e tantomeno contro – la Russia. Al contrario, Washington sta lavorando per favorire questa esclusione, rafforzando al contempo la propria egemonia in Europa. Da parte loro, gli europei occidentali, con la Francia in prima fila, non hanno avuto la visione e il coraggio politico di contrastare le iniziative più provocatorie di Washington e di proporre un quadro istituzionale inclusivo che impedisca la ricomparsa di linee di faglia nel continente. Il risultato di questo servilismo atlantista è che francesi ed europei continuano a essere bistrattati dagli Stati uniti. Il ritiro non concertato dall’Afghanistan, come la creazione di un’alleanza militare nel Pacifico senza l’avallo di Parigi, non sono che gli ultimi episodi di questo atteggiamento disinvolto. Sullo sfondo di un rischio di guerra in Ucraina, gli europei si limitano ormai a osservare da spettatori i negoziati russo-statunitensi in merito alla sicurezza del Vecchio continente.

Mostra meno

Nessun commento:

Posta un commento